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Gli Esuli? ”Migranti delle ex colonie” (Voce del Popolo 07 dic)

Nelle terre plurali dell’Adriatico orientale la componente italiana autoctona è, indubbiamente, una parte integrante, è un’espressione autentica, la quale ha contribuito allo sviluppo civile in senso lato nel corso dei secoli. Si ridusse a sparuta minoranza – e in alcuni contesti scomparve definitivamente – a seguito del secondo conflitto mondiale, allorché fu messo in atto un complesso meccanismo di espulsione di quelle comunità, che definiamo con il termine di esodo. Chi è poco avvezzo alla realtà di queste terre sovente ritiene che siffatta presenza sia in realtà aleatoria, giunta per “sbaglio” e di conseguenza non è infrequente che molti considerino i connazionali ancora residenti nientemeno che una sorta di retaggio del regime del littorio. Al tempo stesso non pochi faticano a dare una definizione corretta a coloro che nel secondo dopoguerra abbandonarono il suolo natio per stabilirsi entro i nuovi confini d’Italia.

Scarsa (e mala) conoscenza

Recentemente Diana Benedetti, giornalista del “Corriere dell’Alto Adige” di Bolzano, ha qualificato gli esuli della sponda orientale adriatica come “migranti delle ex colonie dell’impero fascista”. Proprio così, alla stregua di coloro i quali durante il Ventennio erano partiti verso il loro “posto al sole”, e che a conflitto terminato, ma anche nei decenni successivi, sarebbero rientrati, come profughi, dagli ex possedimenti d’oltremare nella patria d’origine. Il confronto è infelice e inopportuno e al tempo stesso manifesta l’ignoranza esistente intorno alle terre adriatiche, le quali, a prescindere dal fatto fossero appartenute allo Stato italiano, hanno espresso anche una storia, una cultura e un’identità italiane, sebbene per secoli abbiano condiviso quello spazio geografico con la componente slovena e croata.
In realtà quelle terre si conoscono poco e male, a partire dalla geografia. D’altra parte già il prof. Diego de Castro rammentava che in Italia addirittura le persone di media cultura facevano fatica ad individuare la penisola da cui proveniva, evidenziando ancora che “più volte, nella mia vita, mi è stato domandato se io fossi nato ‘a Istria’ e se, prima del 1918, noi parlassimo l’austriaco”. Considerazioni che la dicono lunga sulla percezione che la popolazione del Bel Paese aveva sulle terre “redente”.

Realtà autoctona, non di «seconda mano»

Si sbaglia, evidenzia Ernesto Sestan, in un’eccellente opera del 1947, quando si ritiene che l’italianità della Venezia Giulia sia quasi di seconda mano, “(…) sopraggiunta e recente, meno nobile per antichità di origine e meno fonda, con le sue radici, nel tempo e nel suolo; quasi una italianità coloniale, trapiantata lì sull’altra sponda adriatica, per espansione dell’italianità metropolitana, che sarebbe quella padano-appenninica. Nulla di più falso di questa concezione. Convien qui fermare subito la verità assiomatica che la Venezia Giulia, nella misura in cui essa è italiana, è italiana per le stesse ragioni, per effetto dello sviluppo storico per cui sono italiani il Veneto, il Piemonte, la Liguria, la Lombardia, l’Emilia, la Campania, la Puglia, ecc. ecc; che quella italianità non è un fenomeno di importazione, come quello, ad esempio, degli Svedesi in Finlandia o degli Inglesi nell’Ulster, ma un fenomeno del tutto autonomo, sincrono dell’italianità di tutta Italia” (E. Sestan, “Venezia Giulia. Lineamenti di una storia etnica e culturale”, a cura di G. Cervani, Udine 1997, p. 4).

Ricordare… «juvant» sempre

Si ricorda il superfluo, dirà qualcuno. Sarà anche vero, però ci accorgiamo che sempre più si tende a dimenticare, a obliterare, a mistificare, a distorcere e a travisare il passato di un territorio eterogeneo e ricco di presenze, cosa vera ed inevitabile in una regione che da sempre è stata una cerniera tra mondi etnici, linguistici e culturali diversi. Ma è anche altrettanto vero che in queste contrade sono convissute le specificità, che non vanno dimenticate. Tali peculiarità sono state sommerse e colpite dalle sferzate del lunghissimo secondo dopoguerra che hanno inflitto un duro colpo all’istrianità, ma anche stravolto, fino quasi a cancellare, la presenza italiana le cui radici affondano in questa terra e su queste coste, che ha prodotto tanta storia di queste contrade e che i funesti accadimenti del passato recente ha ridotto al lumicino nella terra d’origine, divenendo una sorta di “reliquia”, mentre ha sparso ai quattro angoli del globo la stragrande maggioranza dei nostri conterranei.
La storia in cui ci riconosciamo, quella che ci indica esplicitamente l’appartenenza a questo contesto viene ripetutamente attaccata, storpiata, si propongono delle interpretazioni che misconoscono la presenza romanza quindi italiana, le attribuiscono un’importanza infima, quasi inesistente. Si parla di “minacce” che sarebbero giunte da occidente, prima da Venezia, poi dal Regno d’Italia e subito dopo dal fascismo, che avrebbero soffocato e tentato di cancellare la presenza slava. Se questo è vero per il Ventennio – ricordiamoci, però, che anche gli Italiani di questi lidi furono vittime del fascio –, quella conclusione non ha alcun valore universale, anzi, è un’operazione alquanto perversa in quanto ripropone le stesse ed identiche argomentazioni anche per i secoli addietro.
È inammissibile che due decenni di una politica scellerata debba deformare la storia, quella stessa che viene maneggiata ad arte da coloro che in ogni espressione italiana vedono il frutto di un’imposizione, rinnegando di conseguenza la sua autoctonia. La mente umana guarda alle cose con una visione prospettica, pertanto vede anzitutto ciò che si trova più vicino. Lo studio della storia è però qualcosa d’altro, è analisi della documentazione, è il tentativo di comprendere la società dei tempi andati. Rammentiamo questo perché tuttora ci sono degli autori che leggono la storia dell’Adriatico orientale solo come una sequenza di violenze e soprusi dei “cattivi” contro i “deboli”, ossia degli Italiani, contro gli Sloveni ed i Croati, i primi dipinti per lo più come i “signori”, che per antonomasia sarebbero stati gli “sfruttatori”, individuando altresì solo un nazionalismo a senso unico, quasi non potesse esistere un altro, di matrice diversa ed altrettanto aggressivo.

Doveroso monito a chi travisa e storpia

E, cosa ancor più preoccupante, si mette in discussione il carattere italiano – che, nota bene, non significa sostenere la sua esclusività nella regione, oppure un primato che rimanda a presunzioni anacronistiche – dipingendolo come mero effetto coloniale. Tali interpretazioni ottocentesche si riscontrano anche in opere uscite recentemente, come in quella di Jože Pirjevec, edita da Einaudi, in cui non mancano osservazioni opinabili sulla presenza italiana, la quale lascia intendere sia il risultato dell’“opera colonizzatrice” di Venezia. Ecco perché un monito deve andare anche all’Italia, quella stessa che, tranne poche eccezioni, ha dimenticato tutto ciò che si trova a oriente di Trieste, perché ormai quelle sono le “terre perdute”, perciò ha coperto tutto e tutti con un velo di disinteresse, e oggi, di fronte a un rinnovato interesse, pubblica senza intervenire, prendendo tutto per oro colato. La libertà di espressione è sacrosanta, ci mancherebbe, esiste però il buonsenso.

Kristjan Knez

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