di Liliana Martissa
Nella scuola materna di Villa Rotta, in provincia di Reggio Emilia, frequentata da una trentina di alunni extracomunitari (appartenenti a sei diverse etnie) e da due italiani, si è pensato di istituire per loro, che sono esigua minoranza, una sorta di ghetto, in cui per due ore al giorno i piccoli potranno comunicare in italiano. Questa soluzione, senza dubbio intelligente ai fini pratici, assume però simbolicamente un rilievo inquietante: il fatto cioè di “costituirsi in minoranza linguistica” di un gruppo là dove è invece maggioranza per appartenenza storica, culturale e statuale, cioè sul territorio della Repubblica italiana. L’avvenimento ha inoltre il carattere deldéjà vu, perché fa venire in mente un’altra situazione determinatasi in un contesto molto diverso, quello dell’Istria italiana durante gli ultimi anni della seconda guerra mondiale. Allora la regione apparteneva al Regno d’Italia (anche se era occupata militarmente dalle forze del Terzo Reich) e la popolazione italiana era ancora maggioritaria, come pure, nei centri urbani, prevalentemente italiani erano il retaggio storico, la cultura (di origine latino-veneta) gli usi, i costumi e la lingua. Ma per iniziativa dei partigiani comunisti jugoslavi, appoggiati da una sparuta rappresentanza di italiani del luogo (appartenenti al P.C.I.) fu approvata nel luglio del 1944 l’istituzione della U.I.I.S. (Unione degli Italiani di Istria e Fiume), cioè di un’associazione di italiani autoctoni che, pur essendo maggioritari e per di più in territorio sotto sovranità italiana, si “costituivano in minoranza nazionale”, con la prospettiva (sic!) di un futuro riconoscimento dei loro diritti alla lingua, alla scuola, alla stampa e allo sviluppo culturale italiano (diritti di cui evidentemente, all’epoca, godevano già ampiamente).
Ciò avveniva nella più completa ignoranza della popolazione e soprattutto, paradossalmente, molto tempo prima che la terra istriana fosse “liberata” dalle truppe di Tito (primavera del 1945), ceduta alla Jugoslavia con il Trattato di pace (1947) e svuotata dalla popolazione italiana con l’esodo di massa (1947-1954) in seguito al quale gli italiani del luogo effettivamente diventarono minoranza. Questa analogia fra i diversi eventi, il primo, l’attuale, di costume, il secondo di drammatica portata storica, è in apparenza improponibile, perché molto diverse appaiono la situazione di allora e quella di oggi: là la disfatta dell’Italia fascista, la resistenza, l’occupazione manu militari dell’Istria, mentre l’ideologia comunista ammantava la cruda realtà dei fatti (cioè la volontà politica di annessione della regione alla Jugoslavia) con nobili ideali di fratellanza, pace e giustizia sociale. Qua invece uno stato che gode di piena sovranità, sottoposto a una massiccia “invasione” non di carattere militare da parte di popolazioni allogene, che appare comunque inarrestabile perché determinata da una molteplicità di cause. Sia come sia, si ha l’impressione che nel nostro paese, in certi condomini come in alcuni quartieri cittadini e in alcune scuole, molto più rapidamente di quanto ci si aspetti gli italiani corrano il rischio di diventare minoritari. Ci si chiede a questo punto se sia legittimo prefigurarsi un futuro più o meno lontano in cui gli italiani sentiranno la necessità di “costituirsi in minoranza” all’interno di una associazione, simile magari all’Unione degli Italiani d’Istria e Fiume, nella quale organizzarsi per mantenere e tutelare i loro specifici caratteri autoctoni (cultura, costumi, religione, linguaggio).