di Davide Turrini
«Spesso si piange non la memoria di chi ci ha lasciato, ma quello che noi abbiamo smarrito di loro». Stralcio significativo tratto da L`isola nuda (Bollati Boringhieri, pp. 158, euro 14) romanzo d`esordio della sessantaduenne traduttrice Dunja Badnjevic.
L`incedere del racconto si culla nella delicata rincorsa dell`ombra lunga, sempre più attenuata dal tempo passato, del padre di Dunja, Esref Badnjevie. Ex partigiano jugoslavo finito a diventare nemico degli amici con cui aveva combattuto contro l`occupazione fascista e nazista della sua terra. E`il giugno del `49 quando l`Ufficio d`Informazione dei partiti comunisti condanna la politica agraria di Tito e la sua strategia di governare uno stato nazionale autonomo rispetto al ruolo guida imposto dall`Unione Sovietica. Esref rimane semplicemente coerente con la propria naturale impostazione ideologica di internazionalista. E non da cittadino comune, ma da importante e attivo quadro della resistenza jugoslava appena conclusa. La polizia fitina non ha pietà per nessuno e lo confina nel 1951 a Goli Otok, l`isola nuda, un arido lembo di terra battuto da venti gelidi d`inverno e sconvolto dal sole cocente d`estate. Sull`isola del canale croato di Velebit, dal`49 al`54, vennero ammassate centinaia e centinaia di prigionieri politici: deportati con forza, trattati con violenza, costretti ad inutili e massacranti lavori, infine torturati quotidianamente in attesa di una conversione "politica". Esref sopravvisse al sadico trattamento riservatogli e ritornò a casa per essere nuovamente incarcerato (anche se con modalità più civili) sull`isola di san Gregorio.
Lisola nuda è il racconto di quegli anni a macchie di memoria, da parte di Dunja, intersecato armoniosamente a brani di un diario di prigionia redatto da
Esre «Scrivere è una specie di autoanalisi – racconta Dunja Badnjevic nel farlo si comprendono molte più cose rispetto agli accadimenti della vita reale. Il libro è rimasto dentro di me per decenni, ma solo dopo aver visitato fisicamente l`isola nuda ho deciso di far rivivere la testimonianza di mio padre (che all`epoca non poteva essere pubblicata, pena un`ulteriore pena carceraria). Avevo come voglia di riabbracciarlo, visto che in vita tra i suoi diversi periodi di prigionia e la separazione dei miei genitori non sono mai riuscita ad avere con lui un vero rapporto di affetto filiale». Nelle pagine de L`isola nuda si intuisce l`urgenza, faticosa e necessaria, di raccontare l`importanza di una figura patema smarrita tra le atrocità della storia: «Mio padre era un`idealista che credeva fino in fondo nelle sue idee. Le torture che lui subì furono la conseguenza della degenerazione e dello sfuggire di mano di un provvedimento d`isolamento dei non titini che poteva teoricamente sussistere visto che Stalin avrebbe potuto invadere la Jugoslavia. Inammissibili, però, furono le barbarie che i detenuti dovettero subire, di cui si vergognò perfino il ministro degli interni di Tito.
Sull`isola si era come creata una sorta di fantasiosa e contagiosa violenza dove si prometteva la libertà a chi avesse sconfessato le proprie idee politiche internazionaliste. I convertiti potevano dimostrare il loro cambiamento picchiando mostruosamente a sangue chi, come mio padre, non voleva sconfessare i propri ideali».
Scenario pubblico e milieu privato della famiglia Badnjevic si sovrappongono di continuo ne L`isola nuda. Una famiglia dalle composite origini religiose ed etniche (i Badnjevic sarebbero serbi, ma con nonni bosniaci e croati, chi di fede cattolica e chi musulmana) che oggi, dopo quindici anni di conflitto tra gli stati ex jugoslavi, sembra uscita da un favola idilliaca: «Non riesco a capacitarmi da dove sia nata questa radicale ondata di differenze religiose che ha travolto la Jugoslavia. La nostra è stata una guerra indotta, voluta da potenze esterne come gli Usa o la Germania. O ancora il Vaticano che ha fomentato molto gli animi e lo spirito dei croati per staccarsi della repubblica jugoslava. Tito era come un bilanciere, rispettato ad est come ad ovest. Alla caduta del suo governo, la crisi economica ci ha travolti, ma nessun paese occidentale ci ha aiutato.
Bastava una millesima parte degli aiuti perla ricostruzione degli anni 2000, per non far iniziare la guerra jugoslava degli anni 90». Lo stupore della Badnjevic deriva anche da una sarcastica posizione di ateismo che fa spesso capolino tra le pagine del libro: «Sono atea con il rammarico di non credere. E` più facile affrontare la vita da credente: la fede ti ammorbidisce l`esistenza, come con le indulgenze medioevali dove si pagava per liberarsi le coscienze dai rimorsi». E visto che Bandjevic è oramai in Italia da quarant`anni, persiste in lei uno sguardo nostalgico e veritiero sui mutamenti della sua città e del suo paese d`origine: «Belgrado, dove ancora vivono mio fratello e mia madre, è una città stupenda con caffè antichi e palazzi meravigliosi. Ma dopo la guerra si è creata un`enorme differenza tra poveri e ricchi: è scomparsa la classe media nel senso buono dei termine, è arrivata molta gente da fuori per arricchirsi ed è comparsa in modo evidente, rispetto ad una volta, la miseria più nera. Si vedono ristoranti stracolmi a prezzi altissimi e tante baracche in cui si vive in condizioni d`indigenza».