di Piero Tallandini
GORIZIA «Ormai ci dobbiamo affidare alle nuove generazioni. Spetta a loro tenere vivo il ricordo. I silenzi di questi ultimi anni, a tutti i livelli, hanno cancellato le speranze di poter finalmente conoscere con certezza la sorte dei nostri parenti deportati. Gli archivi si sono richiusi».
C’è tanta amarezza nelle parole di Clara Morassi, presidente del comitato dei congiunti dei deportati a pochi giorni dalla nuova cerimonia che si terrà martedì alle 17.30 al lapidario del parco della Rimembranza che ricorda i 665 goriziani fatti prigionieri dalle milizie titine e poi andati incontro alla morte nelle foibe carsiche.
Sono passati 66 anni da quel maggio del 1945 quando le milizie fecero il loro ingresso a Gorizia aprendo i giorni del terrore, 66 anni che non bastano a cancellare il dolore dei parenti e la rabbia per i silenzi che da decenni accompagnano questa pagina lacerante della storia del confine orientale.
Qualcosa era sembrato poter cambiare nel marzo 2006, quando uscì l’elenco fornito dagli archivi dell’ex Jugoslavia con i nomi di 1.048 deportati durante l’occupazione titina della città. L’elenco fu reso pubblico tramite la Prefettura dopo che il prezioso documento era giunto nelle mani di Clara Morassi su interessamento del ministro degli Esteri sloveno dell’epoca Rupel. Le indicazioni contenute erano scarne ma per la prima volta c’erano nomi e cognomi dei deportati e indicazioni sul luogo in cui furono prelevati. Avrebbe dovuto essere solo il primo elenco ad uscire dagli archivi, invece è rimasto l’unico.
«Ci speravamo, speravamo che altri documenti sarebbero arrivati – afferma Clara Morassi – per dare finalmente indicazioni precise sulla sorte dei deportati. In quale foiba trovarono la morte, in quale campo di prigionia furono detenuti. Invece è sceso ancora il velo del silenzio, la vicenda foibe è stata nuovamente coperta. Eppure tanta gente non si arrende. Al nostro ufficio ricerche in Prefettura, aperto ogni primo e terzo lunedì del mese, continuano ad arrivare richieste di informazioni. Ultimamente ne abbiamo ricevute addirittura dall’Australia e dal Canada. Ormai abbiamo capito che gli archivi resteranno chiusi ma il ricordo di quelle vite spezzate e delle centinaia di famiglie devastate dal dolore non deve essere sepolto dall’oblio. No, noi non ci arrendiamo».
(courtesy MLH)