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Graziella Andreani, un talento maturato nell’esodo – 12giu13

Dell’origine istriana, polesana per l’esattezza, Graziella Andreani ha conservato l’educazione dei modi, la gentilezza veneta del parlare, sempre pacato anche quando intimamente s’infervora nel commentare il proprio lavoro; mentre la dimensione internazionale nella quale si è trovata a forgiare la sua vocazione all’arte le ha conferito un’ampiezza di vedute e di intuizioni che rende la creatività forse ancora più libera, perché alimentata da una sensibilità più acuta, più complessa.

La sua relazione con i luoghi natali non si è mai affievolita nonostante l’esodo e l’approdo nel nuovo mondo, in Brasile, anni luce distante geograficamente e culturalmente, una realtà apodittica rispetto ai canoni europei e italiani del dopoguerra, una immensa, inedita dimensione fisica e mentale con la quale doversi d’improvviso relazionare, forse da ammansire per poterla vivere.

In Brasile vive dal 1952, nell’arte si cimenta dalla prima metà degli anni Ottanta dopo la laurea in Lettere nella Universidade Federal Fluminense e gli studi di pittura, disegno e scultura presso il Museu de Arte Moderna di Rio de Janeiro. Lungo l’elenco delle sue mostre collettive e personali in Brasile, negli Stati Uniti, in Spagna e numerosi i relativi cataloghi che documentano l’evoluzione nel tempo della sua arte, ma intatto rimane il ricordo delle origini, la mestizia dell’esilio sia pure riscattata dal fermento dell’arte: tant’è che nelle sue pubblicazioni non ha mancato di rendere omaggio al Giorno del Ricordo e alla sua regione, l’Istria, alle sue città veneziane dall’antico nome italiano.

E proprio dalla seconda metà degli anni Novanta, rivela nel suo recente passaggio per Roma e nel corso della sua visita alla sede dell’Associazione alla quale è molto legata, risale l’inizio di una sua riflessione inedita sulla storia più drammatica della sua terra natale, gli eccidi delle foibe, che la sua sensibilità creativa da allora ha iniziato progressivamente a saggiare, a testare, ad elaborare, fino a dare una forma visibile e al contempo depurata all’orrore di quei massacri: perché l’arte vera ha il pregio esclusivo di narrare la tragedia avendola decantata, resa essenziale nel linguaggio allusivo e definitivo dell’opera.

Sono nate così le sue prime realizzazioni con semplice carta di giornale ritagliata a mano, sagomata sulla figura umana e impilata a creare un abisso, un baratro che conserva l’impronta fisica delle vittime. Quasi un assillo che si manifesta per anni in tante sue composizioni al punto da divenire un sigillo della sua arte, il segno immediatamente riconoscibile della sua ispirazione. Ma l’evoluzione del linguaggio astratto matura nuovi segni, e Graziella Andreani si cimenta più recentemente con i metalli, la cui fusione in innumerevoli cerchi di varie dimensioni ricrea in ambienti chiusi e in contesti aperti la memoria dei ferri che tagliavano i polsi ai condannati. Se le sagome ritagliate e tutte eguali evocano la natura indifferenziata e irriconoscibile delle morti, i cerchi di varia dimensione che ingombrano un’intera sala espositiva sino a renderla una selva inquietante obbligano il visitatore a passarvi nel mezzo, a cercarvi una via di fuga mentre simulano un labirinto mobile e occluso.

Ma l’anima arcana dell’uomo non perde la sua speranza connaturata né la memoria della bellezza. È così che nascono alcuni bellissime sculture, rigorose come la linea che il metallo permette di plasmare a immagine dei ricordi: ecco il trittico «Quarnero», una vela, una barca, un molo, che pare citare di lontano le creazioni delicate e fiabesche di Fausto Melotti in una comune tensione alla leggerezza e all’essenzialità del racconto.

Nella relazione ricreata tra i simboli eterni del paesaggio natale sta tutta la grazia della memoria, purificata dalla storia funesta e melanconica come lo sguardo rivolto ad un orizzonte smarrito.

© ANVGD nazionale

 

 

 

«Eubulus». Museu du Ingà, Niterói (Brasile), 2012

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