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Guglielmo Oberdan kamikaze a Nordest (Il Piccolo 16 nov)

Si intitola ”Patria, bene o male” il libro che Carlo Fruttero e Massimo Gramellini hanno scritto a quattro mani ripercorrendo la storia del Risorgimento italiano. Arriva nelle librerie oggi pubblicato da Mondadori. Anticipiamo il capitolo ”20 dicembre 1882. Un kamikaze a Nord-Est”, per gentile concessione.

di CARLO FRUTTERO
MASSIMO GRAMELLINI

Qual è il confine tra fanatismo e martirio? Una linea sottile, che forse ha a che fare con la purezza di cuore. Un martire paga sempre di persona e non coinvolge mai nelle sue trame delle vittime innocenti.

In una caserma della Trieste austriaca, dove oggi sorge il mausoleo a lui dedicato, un ragazzo di 24 anni, pallido e biondo, sale sul patibolo con un sorriso irreale. Mentre la corda del boia gli cinge il collo, grida: «Evviva l’Italia! Evviva Trieste libera!». Si chiama Wilhelm Oberdank ed è il figlio illegittimo di una slovena di Gorizia, che lo ha avuto da un soldato veneto dell’esercito imperiale. Anche Wilhelm è chiamato a servire l’Austria, ma diserta durante l’occupazione di Sarajevo per non sparare addosso ai bosniaci in lotta per l’indipendenza.

Fugge a Roma, italianizzando il suo nome in Guglielmo Oberdan. Imbevuto di irredentismo, dopo la morte di Garibaldi si convince che solo un gesto clamoroso potrà «risvegliare l’animo dei giovani dal loro vergognoso torpore». Decide che quel gesto lo compirà lui, lanciandosi come una bomba umana contro l’imperatore Francesco Giuseppe, il marito di Sissi, atteso a Trieste per i cinquecento anni dell’annessione della città all’Impero. Ma, proprio alla vigilia dell’attentato, un traditore consegna l’aspirante kamikaze ai gendarmi di Monfalcone.

I romantici di tutta Europa si infiammano. Victor Hugo scrive a Francesco Giuseppe per chiedere la grazia. Gli risponde Giosuè Carducci: «Perdoni il grande poeta, ma Oberdan non è un condannato. È un martire. Egli andò non per uccidere, ma per essere ucciso». E va a finire proprio così: Oberdan giustiziato, Carducci tonante contro «l’imperatore degli impiccati» e le piazze italiane in subbuglio. Le manifestazioni di protesta sono soffocate dal governo con un certo imbarazzo. A maggio di quello stesso anno la Sinistra al potere ha ribaltato la tradizionale politica estera dell’Italia, staccandola dall’influenza della Francia (che ci aveva soffiato la Tunisia) per legarla alle sorti di Austria e Germania con un accordo chiamato Triplice Alleanza. Le clausole del trattato verranno rese note soltanto dopo la prima guerra mondiale (e l’ennesimo cambio di campo). Ma, a scanso di equivoci, il cancelliere tedesco Bismarck chiarisce subito i ruoli. «La via fra Roma e Vienna passa da Berlino» dichiara, attribuendosi il bastone del comando. La considerazione che nutre per il nostro esercito è racchiusa in una battuta sprezzante: «Questi italiani hanno ottimo appetito, ma pessimi denti. L’unico contributo che mi aspetto da loro è un caporale con la bandiera, un tamburino, e la fronte rivolta verso la Francia invece che verso l’Austria».

La fronte di Oberdan si è dunque girata dalla parte sbagliata. Ma svetta così alta e fiera che davanti a essa anche Bismarck deve trangugiare un borbottio di ammirazione.

 

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