Ha un nome l’uomo della foto della strage di Vergarolla

75 anni fa l’esplosione a Pola che dilaniò cento persone. Bruno Castro, testimone diretto, dal Canada racconta per la prima volta la verità sulla foto simbolo della foto con la bambina decapitata.

Un colpo secco come di pistola, poi la fine del mondo: un’esplosione frantuma le rocce su cui migliaia di persone si stanno godendo l’assolata domenica di agosto, la pineta divampa in un rogo, il mare si arrossa di sangue e i gabbiani impazziti si contendono i resti umani che piovono dal cielo. Mentre un fungo di fumo si alza dalla spiaggia, per un raggio di chilometri la città intera sobbalza mandando in pezzi vetrine e finestre. Pola, Italia, 18 agosto 1946, oggi 75 anni fa.

Fu il primo attentato terroristico della storia della Repubblica italiana e il più sanguinoso, più di Piazza Fontana, più della Stazione di Bologna. Nella strage di Vergarolla, la spiaggia di Pola, persero la vita oltre cento persone, ma solo a 64 dei corpi polverizzati fu possibile dare un nome, per gli altri saranno i medici a fare un bilancio mettendo insieme i pezzi e contando le membra. Un terzo erano bambini.

E come per ogni tragedia, anche per la strage di Vergarolla c’è una foto simbolo, uscita sui giornali all’indomani dell’attentato: un uomo inorridito che corre sulla riva reggendo tra le mani il corpicino inerte di una bimba vestita di bianco con la testa ripiegata innaturalmente sulla schiena. È un’immagine tuttora indelebile nella mente dei sopravvissuti, ma fino a oggi rimasta senza nome: chi era quella bimba? Chi era l’uomo che l’aveva raccolta? Dove la stava portando? Era forse sua figlia?

«Ricordo quel preciso momento, io avevo 14 anni», ci racconta per la prima volta dal Canada Bruno Castro, istriano nato a Pola nel 1932, «nella grande confusione che seguì lo scoppio mi trovai di fronte mio cognato Mario Angelini, correva con gli occhi sbarrati tra i feriti e i cadaveri tenendo quella bimba tra le mani. Di lei non vedevo il viso, perché la testa era ciondoloni dietro la schiena, vedevo solo dei riccioli neri sul vestitino bianco. Mario continuò a correre e la depose su un camion che portava via i primi corpi, ma intanto mi gridò di correre a casa da mia mamma».Dopo 75 anni, dunque, il fermo immagine si rianima e ci racconta inediti agghiaccianti particolari su quella che incredibilmente è rimasta la più sconosciuta delle pagine della nostra storia repubblicana. “Avvenire” ha già raccontato in più riprese quanto avvenne quel giorno e il contesto storico/politico della strage di Vergarolla, sulla base delle indagini storiche e dei tanti testimoni oculari ancora in vita, ma il vivido racconto di Bruno Castro, riuscito a fuggire dalla Jugoslavia di Tito solo nel 1963, getta nuova luce e conferma tanti elementi.
«Quel giorno a Pola si svolgevano importanti gare di nuoto presso il Club patriottico della Pietas Julia, per questo migliaia di polesani affollavano la spiaggia e intere famiglie, dopo aver assistito alle gare del mattino, attendevano quelle del pomeriggio mangiando e riposando sotto la pineta», a pochi passi dai 28 grandi ordigni bellici stoccati da molti mesi sulla spiaggia e del tutto inoffensivi in quanto disinnescati dagli artificieri sotto il controllo degli anglo-americani. «La mattina avevo fatto la gara dei 400 metri e ora con gli amici giocavamo a “manette”, si tiravano in aria cinque sassolini e li si doveva riprendere tutti insieme al volo. Fu allora che udimmo il primo colpo».

«Noi bambini giocavamo sempre a cavalcioni di quelle mine e teste di siluri, le mamme ci stendevano sopra i costumi ad asciugare”, ci aveva già raccontato Claudio Bronzin, allora 12 anni, che quel giorno si salvò ma perse i familiari e tanti amici. Anche lui, come Bruno Castro, aveva sentito quel colpo «di pistola» prima dell’inferno, sono tanti i testimoni che lo raccontano. E fu Scotland Yard a scoprire subito che quello “sparo” in realtà non era altro che l’innesco dell’attentato doloso, il detonatore a tempo impostato per fare strage tra gli italiani: ambienti jugoslavi tentarono subito di parlare di “incidente”, ma i loro alleati anglo-americani sapevano bene che i 28 ordigni così com’erano non avrebbero mai potuto esplodere, erano stati riattivati per quel giorno.La manifestazione sportiva della Pietas Julia era infatti patriottica, la guerra era finita ovunque da tempo ma l’italianissima città di Pola attendeva ancora con il fiato sospeso di conoscere il suo destino: a Parigi in quei giorni le potenze vincitrici ridisegnavano i confini adriatici e i polesani intendevano così ribadire agli occhi del mondo la disperata volontà di restare italiani e non essere abbandonati alle mire espansionistiche del maresciallo jugoslavo Tito.
«Ho ben chiaro nella memoria quel primo sparo – continua Bruno Castro nella sua casa di Toronto, alle pareti i bassorilievi in legno con gli scorci della sua Pola, l’Arena romana, l’arco dei Sergi, il tempio di Augusto –, subito dopo un bambino urlò e vidi tante persone correre verso di lui pensando fosse stato colpito. Ma proprio mentre andavano in quella direzione, esplose tutto. Io scappai lontano, tornai solo dopo dieci minuti e vidi che la pineta era in fiamme. C’erano adulti che correvano con i feriti verso dei camion inglesi. Fu lì che incontrai il marito di mia sorella Lucilla, che era a Vergarolla come allenatore di nuoto ed era volontario nei vigili del fuoco, tra le mani aveva la bimba senza testa. C’era una grande confusione, resti umani dappertutto, le onde rosse e quei gabbiani… Lucilla il giorno dopo è entrata in travaglio d’urgenza dopo aver scoperto che tra i morti c’era la sua migliore amica. Tutti a Vergarolla abbiamo perso qualcuno di caro, intere famiglie sono scomparse».
Solo quel giorno ai polesani fu chiaro che il regime comunista di Tito non avrebbe mai ceduto alla regola dell’autodeterminazione dei popoli e che rimanere a Pola sarebbe stato impossibile. Vergarolla si comprende bene solo se la si contestualizza in un dopoguerra che in Istria restava ancora guerra, con i rastrellamenti e i campi di concentramento di Tito ancora ben attivi, e con un’escalation di azioni violente anti-italiane che preparavano al peggio: solo due mesi prima i militanti filojugoslavi avevano addirittura fermato il Giro d’Italia e sparato sulla polizia civile, mentre la domenica precedente un’altra bomba aveva fortunatamente fatto cilecca sulla spiaggia di Trieste durante una gara di canottaggio. Dagli archivi di Londra (che ancora tanto devono svelare) un documento dell’epoca attesta la “volontà espressa degli jugoslavi di boicottare qualsiasi manifestazione italiana, anche sportiva”: Pola deve svuotarsi e diventare a tutti i costi slava.
«E poi la città si svuotò davvero con il grande esodo del ’47 – riprende Bruno Castro –. I miei genitori furono tra i pochi che decisero di restare perché mio padre era comunista convinto, aveva le sue idee… Ma la vita divenne impossibile, non esisteva alcuna libertà. Anch’io come tutti ho optato per partire e restare italiano, ma il regime mi rifiutava l’opzione con la scusa che la nostra famiglia era di origini “croate”. Ovviamente il cognome Castro dice tutt’altro, la verità è che avendo in famiglia membri del partito sarebbe stata un’onta per il regime se fossimo partiti. Così negli anni ’50 con alcuni amici ho provato a scappare via mare dalla Jugoslavia, ma qualcuno ci ha tradito. Tanti hanno tentato di fuggire in barca di notte ma sono spariti nel nulla… Ho anche dovuto fare il soldato sotto Tito – racconta mostrando l’album di foto che lo ritrae tra tanti giovani in uniforme sportiva attorno al dittatore in visita –. Di politica nessuno fiatava, c’era tanta paura. Persino Mario ha sempre taciuto, morto a Pola 15 anni fa senza parlare più di Vergarolla né di quando da pompiere si calava nelle Foibe alla ricerca di suo fratello, mai ritrovato. Bisognava dimenticare e vivere».Finì anche in cella, il giovane Bruno ormai elettromeccanico nei cantieri navali di Pola, accusato di sabotaggio per un normale guasto ai motori della barca che portava gli ufficiali, «è già buono che non mi hanno mandato a Goli Otok», il più infernale dei gulag sull’Isola Calva. «Finalmente nel 1963 con mia moglie Maria Ghersini di Dignano, che ha 89 anni come me, siamo riusciti ad avere il permesso di partire e oggi in Canada facciamo parte di una nutrita comunità di Giuliano-Dalmati fuggiti fin quaggiù ma sempre rimasti istriani».

Con Maria, con le figlie Astrid e Carin, e persino con la nipote Alina di 26 anni parla ancora dialetto istroveneto. «Siamo tornati a Pola ogni estate – sorride Astrid – abbiamo l’Istria nel sangue. Io sono nata a Latina nel campo profughi, subito dopo la fuga dei miei da Pola e prima della partenza per Toronto, ma sarò sempre istriana. Soprattutto sento la grande responsabilità di portare avanti la nostra storia, perché so bene cosa hanno dovuto patire i nostri genitori per la libertà e per restare italiani. Non è possibile che l’Italia non sappia nulla di quanto è accaduto a Vergarolla, perché tacere ancora?».«Finché vivevo a Pola eravamo costretti al silenzio reciproco – spiega suo padre –. Io la foto originale di mio cognato la vidi sui giornali del 1946, ma in casa tutti zitti. Poi una volta in Canada che senso aveva tirar fuori questa storia sconosciuta? E con chi? Ma a dire il vero voi in Italia faticate ancora oggi a parlare di queste cose: qualche primo ministro è mai andato il 18 agosto a Vergarolla a deporre un fiore? Gli italiani ne sanno qualcosa?».Un anno fa Astrid ha trovato sul web le pagine di Avvenire su Vergarolla e la foto dello zio Mario con la bimba in braccio “e solo allora abbiamo passato la serata in famiglia a parlare di quel fotogramma. Persino i miei cugini, i figli di Mario che vivono ancora a Pola, oggi Croazia, sono rimasti scioccati nel riconoscere loro padre in quella foto. Non aveva mai raccontato niente neanche a loro».
Vergarolla è l’evento che diede inizio alla guerra fredda a livello internazionale e la prova generale dello stragismo d’Italia nei decenni a seguire. Certamente un fatto che dovrebbe essere annoverato nei libri di storia contemporanea. Solo che Tito, dittatore comunista ma avversario di Stalin, andava blandito, così l’Occidente, Italia compresa, chiuse un occhio e “dimenticò”. Anche oggi nel duomo di Pola, accanto al cippo che ricorda le vittime, esuli e rimasti si ritroveranno insieme dopo 75 anni a pregare per i loro cari, ma senza che dalla vicina madrepatria arrivi un solo cenno di memoria.

Lucia Bellaspiga – 18/08/2021
Fonte: Avvenire

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