Le manifestazioni improvvisate nelle scorse settimane a Vukovar dalle organizzazioni croate dei veterani della «guerra patriottica» degli anni Novanta e da semplici cittadini contro l’introduzione del serbo nelle insegne delle istituzioni statali e amministrative riaccendono involontariamente i fari su un aspetto coessenziale della società est-europea in generale, ovvero – come ha scritto in un pregnante commento Gian Andrea Franchi pubblicato il 23 agosto su www.osservatoriobalcanicaucaso.it, Balcani, identità e androcentrismo – «un’incontenibile esigenza d’identificazione […] con un’evidenza teatrale spinta fino alla tragedia» che tende «al mito di una forma fissa, identica a se stessa, come un’idea platonica […]. Una forma fissa è, in quanto tale, esclusiva e intollerante» (http://www.anvgd.it/rassegna-stampa/15807-balcani-identita-e-androcentrismo-balcanicaucasoorg-23ago13.html).
È accaduto così che le tabelle bilingui, croato e serbo, siano state affisse un giorno nella «città martire» alle 4 del mattino sotto scorta, e distrutte da manifestanti inferociti poche ore dopo, inalberate come trofei di una nuova guerra, di un’atavica intolleranza per l’altro.
Mentre consigliamo la lettura di quella puntuale ed ampia analisi di Franchi (che ricorda finanche come siano state distrutte, al tempo dell’assedio di Sarajevo dal 1992 al 1996, le fotografie dei defunti nel cimitero sefardita, «estrema forma di annientamento dell’identità»), registriamo qua e là in queste settimane rinnovati interventi a difesa del bilinguismo in Istria e qualche protesta di esponenti della comunità nazionale italiana contro la persistente insofferenza di molti ambienti della maggioranza rispetto alla storia e alle memorie dei luoghi oggi a sovranità croata.
Negare la storia
Così un esponente italiano di Fiume, Bruno Buontempo, lamentava su “la Voce del Popolo” del 27 agosto l’«ennesimo tentativo di rimozione e di cancellazione culturale del passato di Fiume e di quella che è la nostra complessità identitaria» a partire da una trasmissione radiofonica d’intrattenimento, nel corso della quale il direttore dell’Ente per il Turismo di Fiume, Petar Škarpa (il cui cognome, evidentemente, è la trascrizione croata dell’originale italiano, giusto per inciso) non ha saputo obiettare alcunché ad un’ascoltatrice inviperita che gli chiedeva «perché la regata velica in città si chiama Fiumanka e non Riječanka», e «inoltre, voleva sapere dal direttore come spiega l’uso e abuso di espressioni che traggono spunto dal nome italiano della nostra città, coniando vari slogan in circolazione come Forza Fiume, Fiume bella…». I tifosi del Rijeka sono avvertiti.
Anche Furio Radin è tornato recentemente sul principio del bilinguismo in Istria, non mancando di porsi anche domande scomode (si veda la cronaca di Ilaria Rocchi sulla “Voce del Popolo” del 16 luglio, http://www.anvgd.it/rassegna-stampa/15623-ui-sguardo-rivolto-al-futuro-voce-del-popolo-16lug13.html) e ribadendo l’appello a «dialogo, comunicazione, tolleranza e comprensione reciproca» nel corso di un’intervista rilasciata alla Tv croata insieme con Ivica Vrkić, sindaco di Osijek, cittadino onorario di Vukovar ma promotore del processo di reintegrazione pacifica delle comunità croata e serba.
Dal canto suo, Milorad Pupovac, deputato del Sabor e presidente del Consiglio serbo di Croazia, non ha mancato di rilevare recentemente le grandi difficoltà che l’intero processo di riconciliazione post guerre degli anni Novanta incontra ancora, e delle diffuse aree di persistente sofferenza: dall’impossibilità per gli sfollati di rientrare nelle proprie case all’alta percentuale di disoccupati fra le comunità serbe, dall’estrema precarietà esistenziale all’aumento diffuso delle manifestazioni ostili da parte della maggioranza.
Le moderne contraddizioni di istituzioni e società civile
Pare dunque profilarsi una contraddizione evidente tra le dichiarazioni istituzionali dei vertici croati sul rispetto e sulla ricchezza della multiculturalità e le tensioni irrisolte della società civile: mentre il presidente Josipovic in molte occasioni ha riconosciuto la presenza autoctona e il ruolo della comunità italiana, confermata dal canto suo dall’ambasciatore di Croazia a Roma, il fiumano Damir Grubiša di madre italiana (si ascolti la sua intervista alla radio della Rappresentanza Europea in Italia, http://www.anvgd.it/notizie/15476-ambasciatore-croato-in-italia-lvengo-dalla-citta-di-fiume-multiculturaler-27giu13.html, del giugno scorso), di contro non mancano nella società croata (e non solo, naturalmente) diffuse e radicate intolleranze etniche e religiose e, presso le sue istituzioni, aree di intatta contiguità con il passato regime comunista: come prova l’annoso caso Perkovic, che vede ora l’irritazione dell’UE per la mancata estradizione in Germania dell’ex agente di Tito fortemente sospettato dell’omicidio nel 1983 di un dissidente croato in territorio tedesco.
Le cronache ci rivelano dunque un quadro sociale e culturale complesso e contradditorio, che certamente l’adesione formale all’Unione Europea non può modificare in tempi rapidi e definitivamente, poiché sono in gioco dinamiche profonde di adesione e di assimilazione di un modello di democrazia e di cittadinanza storicamente estraneo a Paesi lungamente sottoposti a regimi totalitari, nei quali il nazionalismo giocava – al contrario di quanto proclamato dal dogma internazionalista cui apparentemente aderivano – un ruolo tutt’altro che secondario, saldandosi anche a quell’atavica ossessione identitaria ben rievocata da Franchi e che nell’ex Jugoslavia trovò una delle più tragiche applicazioni, nella seconda guerra mondiale e, appena ieri, nelle guerre fratricide degli anni Novanta.
Patrizia C. Hansen, addetto stampa ANVGD e direttrice di “Difesa Adriatica”
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«Vukovar croata, no al cirillico» recita lo striscione su un carro armato monumento della «guerra patriottica» degli anni Novanta (foto www.vecernji.hr)