Da piccolo ero capace di mangiare pomodori in quantità fuori misura. Ben conditi con olio e origano o addentati “nature”, con o senza sale, secchi o nei tubi del concentrato, erano il simbolo dell’estate matura. Verdi o rossi, barilotti o cuori di bue, che fossero di Napoli, Pachino o della pianura padana, attraverso i loro gusti e colori esploravo i territori. Ma il piacere divenne consapevolezza quando – avrò avuto otto anni – la nonna materna, grande narratrice, mi raccontò dell’imperatore Diocleziano, che dopo alcuni anni di regno incontrastato, si ritirò nella sua Spalato, sull’Adriatico, a godersi la vita semplice della campagna.
Si narra, mi disse la vecchia Alida, che un giorno un gruppo di senatori partì da Roma e traversò il mare per chiedere all’ex imperatore di tornare sul treno. Il motivo era che nella capitale del mondo era scoppiata l’anarchia e serviva un’autorità forte. Il monarca in pensione ascoltò in silenzio, poi disse ai venerabili delegati di seguirlo. Portò i senatori nell’orto, staccò dei pomodori da una pianta e li fece assaggiare. La delegazione ammutolì masticando, salutò con deferenza e tornò in Italia senza più nulla chiedere. Il messaggio era chiaro: quegli ortaggi erano mille volte meglio di un impero.
Al tempo in cui la nonna mi raccontava le sue storie, ancora non sapevo che i pomodori al tempo dei Romani ancora non esistevano, ma il messaggio fu chiaro. Ora so che se anche l’imperatore della storia non era davvero Diocleziano ma qualcun altro, vissuto chissà in Cina o in Nordafrica, si trattava di un dettaglio assolutamente trascurabile rispetto alla morale. Mezzo secolo dopo mi capitò di sentire un’altra storia di pomodori da una giovane cuoca nell’isola di Pantelleria (anche mia nonna era cuoca e forse la coincidenza non era casuale). Costei raccontò che da bambina usava tormentare i genitori sempre con la stessa domanda: cosa vi fa amare questo ventoso scoglio fuori dal mondo? Loro rispondevano sempre allo stesso modo: capirai da grande. E intano il tempo passava tra i muretti a secco pieni di capperi e pomodorini, alimento base degli irsuti abitanti dell’isola. Passarono gli anni e un giorno la ragazzina fu spedita dai genitori per qualche mese presso parenti emigrati al Nord e lì dal cielo discese l’illuminazione. “Mi bastò assaggiare dei pomodori diversi da quelli della mia isola per capire la scelta di mio padre e mia madre”.
La conferma della favola di Diocleziano, a cinquant’anni di distanza. Questo lungo preambolo solo per dirvi che a Trieste ho assaggiato i primi pomodori di Pietro Porro, uno dei librai più geniali d’Italia. Ultimo di dieci fratelli, coltissimo e armato di cortese ironia, Pietro si mette a disposizione delle librerie (che fanno a gara per averlo) il tempo strettamente necessario a mettere da parte qualche baiocco e potersi ritirare per lunghe parentesi di non-lavoro, dedicate peraltro ad altre tre raffinate occupazioni. La prima è il windsurf, che lo ha reso noto tra i maniaci del vento col nome di “Piero Libro”.
La seconda è la calligrafia pittorica, arte di cui è l’unico rappresentante mondiale, che lo fa disegnare inimitabili fatti di pura e indecifrabile scrittura. La terza è l’orticoltura senza chimica, mestiere in cui esprime il massimo della sua abilità manuale sui terrazzamenti della sua casetta di periferia. Insomma il buon Pietro ha preparato il primo piatto di pomodori della stagione. Un’opera d’arte degna di Rembrandt, carnosa e rosso sangue, servita con un po’ d’olio e niente il sale. Li ho gustati al tramonto, con un sorso di malvasia istriano, conversando di Wittgenstein e Garcia Lorca, fino a trarne una nuova morale. Ovunque può essere Spalato o Pantelleria, se ami la terra che l’Altissimo ti ha prestato.
Paolo Rumiz
“Il Piccolo” 20 luglio 2012