LETTERE
Si è tenuto in questi giorni a Trieste il 56° raduno di dalmati. Tra i tanti profughi zaratini ci sono anch’io e mi permetto di chiedere ospitalità a codesto caro e glorioso giornale.
Dopo la Prima guerra mondiale l’Italia ottenne i suoi confini naturali. Il confine orientale era delicato e richiedeva saggezza da parte italiana. Ma non fu così e un governo apparentemente patriottico e ignorante della natura dei popoli confinanti, mise a repentaglio quel confine che era costato tante vite umane. È finita com’era prevedibile e come avrebbe dovuto essere previsto ed evitato da parte di governanti normali. In pochi anni furono rovinati venti secoli di civiltà adriatica e romana. Quella civiltà permeava tutta la Dalmazia qualunque fosse la lingua adoperata dai suoi abitanti.
Lo scopo del nostro raduno è quello di ritrovarci e ricostruire per qualche giorno un pezzetto dell’anima della nostra città. Alcuni versi di Raffaele Cecconi esprimono tutto il nostro rimpianto per un mondo che ci è stato tragicamente negato: «Da un mare all’altro ormai ti trascini / ma è sempre là la tua riva / quella che ragazzo ti vide / cogliere sull’orlo / il riflesso dei pesci che la lenza / non sapeva pescare».
Penso che i sentimenti che abbiamo rivalso nel raduno siano il rimpianto per la patria perduta e la pietà per i poveri morti nelle foibe che sono stati l’epilogo di un odio secolare e genetico verso la sempre invidiata Italia.
Gabriele Donati, Monfalcone