di Kristjan Knez
Allorché parliamo del Risorgimento e nella fattispecie dell’Unità d’Italia è doveroso accantonare i luoghi comuni e le enfatizzazioni che non di rado portano a vedere un’immagine ideale ma irreale della questione, e di conseguenza distorta. Se prima del 1848 parlare di una coscienza nazionale è una forzatura, nella seconda metà di quel secolo, invece, anche sulla sponda orientale dell’Adriatico si iniziò ad elaborare il concetto di nazione italiana, che, comunque, rimaneva ancora nella sfera dell’astratto. La creazione del Regno, nel 1861, portò invece ad un mutamento considerevole. Gli intellettuali furono i primi a coglierlo, le masse popolari invece molto meno o per niente.
Una nuova stagione
Parallelamente alle vicende italiane, che destarono non poco interesse, anche nei territori della monarchia danubiana iniziava a schiudersi una stagione nuova. Gli Slavi meridionali cominciarono a destarsi a nuova vita, ideando anche per loro una patria all’interno della cornice imperiale. Sarebbe emerso palesemente quanto era stato elaborato precedentemente cioè in quella fase conosciuta con il nome di risveglio o risorgimento nazionale. Al contempo quelle impostazioni avrebbero condotto inevitabilmente ad uno scontro tra le parti interessate. Il concetto di nazione formulato dalle varie anime della regione, che comprendeva territori sui quali quegli stessi interessi si sovrapponevano, andò a cozzare e conobbe un crescendo nei lustri antecedenti lo scoppio della prima guerra mondiale, i cui dissapori nazionali ormai avevano raggiunto l’apice.
Si apre la «questione»
Proprio negli anni Sessanta del XIX secolo si inizia a parlare di una “questione adriatica” – il cui esordio generalmente viene fissato al 1866 con la battaglia di Lissa – che si protrarrà per quasi un secolo, passando attraverso fasi diverse corrispondenti ad altrettanti differenti periodi storici, articolandosi e subendo gli influssi dei grandi accadimenti che interessarono direttamente l’area geografica. Due conflitti mondiali, la comparsa e l’affermazione di regimi autoritari e dittatoriali, che quivi sovente manifestarono sembianze e contenuti specifici, l’elaborazione di programmi tesi alla “semplificazione” nazionale, il sogno all’egemonia in un settore complesso e la pianificazione di espansioni territoriali su vasta scala, accompagnata dalla dilatazione e dalla contrazione dei confini, che non corrispondeva solo al mutamento di una linea immaginaria sulla carta geografica bensì aveva portato a cambiamenti pressoché radicali in ogni settore, furono solo alcuni dei problemi che andarono ad aggravare un contesto già contraddistinto da problemi ma che sovente venivano risolti in loco attraverso “compromessi” tesi a trovare una pacificazione tra le varie anime di un territorio plurale.
Le radici
Per comprendere tanti lati della storia più recente giocoforza bisogna considerare la realtà adriatica dalla metà dell’Ottocento in poi. Questa è ormai una visione che sempre più viene accolta dalla ricerca storiografica, ormai consapevole che lo studio delle più disparate questioni che la riguardano affondano le radici nei periodi precedenti. Solo un’analisi di lunga durata permette una migliore comprensione giacché è in grado di cogliere problemi e sfaccettature attraverso i quali si penetra nelle diverse questioni e si ha la possibilità di enucleare aspetti e visuali differenti che così offrono un’immagine a tutto tondo di un’età; sempre che si voglia affrontare l’argomento nella sua complessità, cioè evitando il punto di visto esclusivo, per abbracciare anche le ragioni degli altri.
Per cogliere appieno le speranze di quel nucleo che sarebbe poi confluito nel partito liberal-nazionale il cui atteggiamento era palesemente separatista, non dobbiamo perdere di vista i vincoli esistenti con l’area veneta. Si trattava di un rapporto plurisecolare che legava quelle popolazioni ed era esistente a prescindere dalla nuova situazione venutasi a creare.
Scambi ereditati da Venezia
Tra le due coste adriatiche vi erano profondi legami ed era vivo il ricordo della Serenissima. Malgrado l’occupazione austriaca si riteneva di essere ancora legati alla città di San Marco. D’altra parte già all’indomani della caduta della Repubblica oligarchica si era manifestato il desiderio di mantenere integra l’antica unità adriatica. La Municipalità Democratica Provvisoria di Venezia, difatti, aveva invitato i popoli dei possedimenti della Dominante a “fraternizzare” evidenziando la secolare compattezza tra le due sponde. Le iniziative delle singole municipalità che colsero l’invito proveniente d’oltremare gettarono le basi della “democratizzazione” e si “dedicarono” spontaneamente, testimoniano l’esistenza di un’area geografica caratterizzata da interessi reciproci, con un passato, una cultura e un’identità regionale comuni che non avrebbe dovuto mutare nemmeno nella nuova cornice venutasi a creare dopo il 12 maggio 1797.
Mantenere la «sintonia»
Le simpatie istriane per l’antica capitale non erano tanto la dimostrazione di un interesse per gli ideali espressi dal governo “rigenerato”, quanto la volontà di mantenere vivo il legame tra quelle coste e la laguna, cioè si desiderava continuare quella plurisecolare sintonia con la città dei dogi. Si auspicava che il “cordone ombelicale” tra le due rive adriatiche non si spezzasse. In quella fase non vi erano ancora motivazioni di ordine nazionale, l’obiettivo era quello di preservare l’integrità di uno spazio ben definito. Con il passare dei decenni invece tale prospettiva mutò profondamente.
Vi fu un vivo entusiasmo nel 1848, nel momento in cui a Venezia fu presentata l’ambiziosa idea di restaurare lo Stato del leone alato, che fu salutata da parecchi giovani i quali dalle terre dell’Adriatico orientale accorsero in laguna per dare il loro appoggio a Daniele Manin e a Niccolò Tommaseo.
La volontà di restare legati all’area italiana
Qualche anno più tardi, invece, il desiderio di continuare a rimanere legati all’area italiana, o almeno a quella veneta, emerse esplicitamente. E alcuni rappresentanti politici della penisola istriana si mossero in quella direzione. Nel 1859 difatti giunse una petizione da parte dei podestà di Capodistria, di Pirano, di Parenzo, di Rovigno, di Dignano, di Pola e di Albona in cui si sottolineava la volontà di aggregarsi al Veneto. La motivazione ufficiale era dettata da ragioni economiche, quelle reali erano invece di tutt’altra natura. L’obiettivo era di fare in modo che quella unità territoriale non subisse frazionamenti di alcuna sorta, poiché era considerata una caratteristica di notevole importanza che avrebbe facilitato l’inclusione dell’Istria entro i confini di un futuro stato italiano, ma fu evitato per non incappare nei sospetti asburgici e alla fine fu considerato un progetto fin troppo audace. Le menti di quella iniziativa erano i capodistriani Carlo Combi e Antonio Madonizza e l’albonese Tomaso Luciani.
I fermenti del mondo slavo
Come abbiamo rammentato anche il mondo slavo meridionale si stava contemporaneamente destando. Nel settembre del 1860 in seno al Consiglio dell’Impero affiorò la questione dell’annessione della Dalmazia alla Croazia avanzata dai deputati croati Strossmayer e Vraniczany che fu prontamente giudicata priva di alcun fondamento dal deputato zaratino Francesco Borelli.
Con l’istituzione delle diete provinciali, in Croazia fu convocata la “Conferenza del Bano” (Banska konferenca), dandole carattere di costituente, in cui fu votato l’invio di una delegazione a Vienna per la presentazione delle richieste croate, tra le quali quell’annessione. Nella sua risposta l’imperatore era pronto ad unire il territorio dalmata alla Croazia ed ordinò che alla Conferenza del Bano si invitino i rappresentanti di quella regione. Nessuno però lo accolse. I consigli comunali dalmati si riunirono per manifestare la loro contrarietà e per protestare contro quella decisione. I diretti interessati manifestarono pareri contrari con mozioni, ordini del giorno, riunioni, ecc., e si impegnarono con veemenza per dimostrare l’inconsistenza delle argomentazioni croate, ribadendo la volontà della Dalmazia di non far parte della Croazia. Si presentò l’esistenza di una nazionalità italiana e da Firenze si attivò anche Niccolò Tommaseo.
Voglia di autonomia per non passare alla Croazia
Una corrispondenza inviata da Zara e pubblicata dalla “Gazzetta di Fiume” il 27 marzo 1861 riporta: “Le pratiche che qui hanno luogo per l’annessione alla Croazia, mi sembra vadino incontro alla sorte che ebbero a Fiume, poiché non si odono dal popolo che continue esclamazioni in senso anti-annessionistico, e continui evviva alla Dalmazia, ai Dalmati, alla autonomia della Dalmazia, ecc. ecc. Si formò pure un Comité di bottegai, beccai, facchini ed artieri il quale non vuol saperne affatto dell’annessione”.
A Spalato il podestà Antonio Bajamonti parlava a favore di una Dalmazia autonoma. Anche in quella regione dalla dimensione propagandistica e giornalistica si passò al livello parlamentare. Nel 1861 pure la Dalmazia ebbe la sua Dieta, con sede a Zara, composta da 29 rappresentanti italiani e da 12 croati, più due membri di diritto ossia l’arcivescovo cattolico e il vescovo ortodosso.
Durante la prima riunione il commissario imperiale avvertì che si sarebbero esclusivamente scelti i deputati i quali avrebbero discusso la questione dell’unione. Nella quarta seduta del 18 aprile di quell’anno il deputato autonomista Galvani illustrò la mozione in cui si evidenziava che la proposta governativa sulla nomina ed invio dei deputati a Zagabria non poteva essere accolta non tanto per la forma quanto per l’inopportunità dell’annessione. Nel corso del voto quella mozione ottenne 29 preferenze contro 13 astensioni. Da lì a breve gli annessionisti partirono di nascosto per partecipare ai lavori della Dieta di Zagabria nonché per unirsi alla delegazione, capeggiata da Strossmayer, che avrebbe raggiunto Vienna.
Bajamonti e la Dalmazia
Antonio Bajamonti propose di contrastare l’azione croata in modo che anche il rimanente della Dieta della Dalmazia fosse presente nella capitale austriaca. L’8 maggio quei rappresentanti illustrarono all’imperatore la loro posizione.
Parlando della realtà adriatica di un secolo e mezzo fa é opportuno evitare i luoghi comuni su determinati episodi in quanto non consentono di cogliere i nessi, i problemi e le caratteristiche delle società interessate in quell’età storica. Nel momento in cui ci soffermiamo sugli Italiani delle regioni dell’Adriatico orientale, accanto alle aspirazioni separatiste, caldeggiate, tutto sommato, da una minoranza, sarebbe intellettualmente poco onesto se non ricordassimo le posizioni autonomiste di quanti anziché l’unione all’Italia prospettavano di rimanere entro l’impero danubiano, liberale, pluralista e protettore delle identità regionali e delle minoranze linguistiche. Tra questi ricordiamo Francesco Vidulich di Lussinpiccolo, che era uno di quei patrioti decisi sì a condurre una battaglia per l’italianità ma secondo le modalità consentite dalle leggi austriache. Altri si sarebbero impegnati alacremente per il distacco dell’Istria dal corpo asburgico, conducendo, all’indomani della proclamazione del Regno, una campagna di sensibilizzazione in varie parti d’Italia, illustrando la storia, la cultura, le consuetudini e la presenza italiane in quell’angolo adriatico non sempre conosciuto.
L’epoca delle speranze
Dal 1861 al 1866-67 non pochi sperarono in un mutamento dei confini sulle carte geografiche e si adoperarono in vario modo, arruolandosi sia con l’esercito regio sia con Garibaldi. A fianco dell’Eroe dei due Mondi vi era anche Domenico Lovisato di Isola, ad esempio, che all’età di ventiquattro anni lo troviamo impegnato nel Trentino nel corso delle operazioni della terza guerra risorgimentale. Un altro volontario era il capodistriano Leonardo D’Andri, caduto a Custoza il 24 giugno 1866 all’età di 33 anni.
Nella campagna per la liberazione di Roma, nel 1867, troviamo ancora Federico Cuder, Francesco Ettel, Antonio Pizzarello, Domenico Steffé e Domenico Vascon, tutti di Capodistria, Salvatore Gremignani ed Enrico Soucek di Albona nonché Vittorio Vittori di Dignano. Questi sono solo alcuni esempi che aiutano a comprendere quali fossero i sentimenti e le speranze di una parte della popolazione italiana dell’Istria.
Il municipalismo fiumano
Una realtà orgogliosa della sua autonomia era il municipio Fiume, difensore dell’italianità linguistica e culturale (stiamo parlando in questi termini) della città quarnerina, intesa come elemento imprescindibile, da conservare in quanto patrimonio che esprimeva la sua specifica identità. Nella patria di San Vito si espresse la decisa volontà di difendere quei valori, poiché: “È questa la lingua che i Fiumani tutti fecero loro lingua natale, che ereditarono dai loro padri, e conservarono come causa precipua del loro incivilimento, e ben essere commerciale e sociale. Togliere ai Fiumani la lingua italiana é impossibile: obbligarli a servirsi negli affari forensi di altra lingua che dell’Italiana, é muovere guerra ai loro principi, ed alle più tenere loro affezioni. Liberi siamo nel pensiero, nell’espressione delle idee e liberi pure dobbiamo essere nell’usare di quella lingua che sempre fu il solo mezzo perché le idee si esprimessero e si desse a queste lo sviluppo richiesto dai tempi” (“Gazzetta di Fiume”, 15 aprile 1861).
Il Corpus separatum
Se dopo il 1848 i Croati presero possesso del porto quarnerino che andò a formare una parte della Croazia-Slavonia, dal 1860 in poi gli avvenimenti portarono a un profondo cambiamento. I rappresentanti fiumani presentarono la richiesta di far parte del Regno d’Ungheria evidenziando la necessità di garantire l’autonomia di quel municipio. La stampa coeva illustra chiaramente quelle posizioni. Di seguito riportiamo alcune considerazioni pubblicate in quella circostanza: “Fra noi non esistono né mene né partiti: tutti gli spiriti si uniscono in un solo desiderio ed in una sola aspirazione: dal villico delle nostre più alte colline sino al pescatore che in quest’onde tuffa le reti; la rivendugliola e la Signora, il capitano ed il mozzo, il facchino ed il negoziante, il patrizio ed il popolano, tutti in una parola nutrono gli stessi desideri, quelli cioè d’essere immediatamente uniti all’Ungheria” (“Gazzetta di Fiume”, 22 aprile 1861).
O ancora: “Il più recente esperimento, o meglio la prova di fuoco imposta alla popolazione di Fiume, per ottenere la nomina dei Deputati alla Dieta Croata-Slavona, riescì completamente a danno di coloro che ebbero l’intemperanza di ricondurre sul terreno della pubblicità una questione già previamente discussa ed amplamente giudicata da questa congregazione municipale.
Questa prova di fuoco, che speriamo sia stata l’ultima, fu la più splendida ed irrecusabile testimonianza, fu un nuovo e raro esempio dell’unanimità dei sentimenti di questa popolazione, che forte de’ suoi diritti storici e senza ambagi, vuol giungere per la via più breve alla sua meta. Il risultato della votazione effettuatasi il 22 volgente, non abbisogna di alcun commento;- esso merita di andar registrato a caratteri cubitali nella storia delle votazioni dirette; esso forma la più bella pagina della storia di un paese, che tal modo dimostrò nuovamente di saper volere, e di saper provvedere da sé e con animosa perseveranza al riconoscimento delle sue giustissime aspirazioni senza bisogno che altri il tiri a rimorchio. (…) é ò la volontà indeclinabile di un’intera popolazione, che mediante la regolare emissione del voto dei singoli elettori, protesta solennemente e si dichiara a voci unanimi
contro l’invio dei Deputati alla Dieta Croato-Slavona” (“Gazzetta di Fiume, 25 aprile 1861).
L’irredentismo giuliano
Al tempo stesso in Istria si assistette ad un’iniziativa dimostrativa il cui episodio per decenni avrebbe alimentato l’irredentismo giuliano. Nell’aprile del 1861 la dieta di Parenzo doveva eleggere i due membri che l’avrebbero rappresentata al parlamento di Vienna. Si optò per il rifiuto; l’atto di protesta doveva essere un chiaro segnale nei confronti della scarsa attenzione dimostrata dal governo per i problemi della penisola. Prevalse l’astensionismo proposto dal capodistriano Nazario Stradi e nelle sedute del 10 e 20 aprile 1861, 20 membri su 29, sulle schede scrissero “Nessuno”. Quel gesto era la prima manifestazione di disconoscimento della dominazione asburgica. L’episodio non fu isolato, infatti, fu preparato in accordo con le Diete di Venezia, Padova e Zara nonché con le municipalità di Fiume e di Trento.
Nel settembre dello stesso anno si ebbe una seconda Dieta, questa volta però era formata da membri più fedeli all’autorità imperiale. Ma i nuovi componenti in buona parte non furono all’altezza del compito a loro assegnato. La Luogotenenza era intenzionata a dimostrare che quella nuova formazione avrebbe saputo amministrare la provincia senza grosse difficoltà.
La silenziosa pacificazione
Ma la realtà era un’altra. Come scrive Almerigo Apollonio, “Molti dei deputati, eletti d’imperio nella seconda dieta per l’assenza dei migliori concorrenti, ebbero a rivelarsi tra le personalità più retrograde che avessero cittadinanza nel paese, tanto che, da parte governativa, si dovette rimediare con alcune reprimende e, più tardi, col far ricorso ad elezioni suppletive, convincendo ad accertare la rielezione dei personaggi che sarebbero stati determinanti nella silenziosa ‘pacificazione istriana’ degli anni successivi”. Tra questi nomi ricordiamo Nicolò Madonizza e Matteo Campitelli, “nessunisti”, e Francesco Vidulich già vicecapitano provinciale.
I «nessunisti»
Ecco la lista dei deputati istriani che rifiutarono di inviare i propri delegati al parlamento di Vienna, in aperto contrasto col potere centrale. Sulle schede per la votazione scrissero, in due distinte votazioni, “Nessuno”, da cui il nome di “Dieta di Nessuno”. Le due votazioni ebbero luogo a Parenzo, il 10 e il 16 aprile 1861. Lo stesso 16 aprile il governo di Vienna sciolse la dieta
dott. Andrea Amoroso (Rovigno, 14 settembre 1829-Parenzo, 19 febbraio 1910)
dott. Antonio Barsan (Rovigno, 27 maggio 1823-Pola, 23 marzo 1889)
dott. Luigi Barsan (Rovigno, 22 agosto 1812-ivi, 15 marzo 1893)
dott. Giuseppe Basilisco (Rovigno, 17 settembre 1823-Trieste 2 agosto 1904)
dott. Cristoforo Belli (Capodistria, 17 novembre 1819-ivi, 3 settembre 1877)
dott. Ercole Boccalari (Brunn, 24 luglio 1816-Dignano, 7 novembre 1901)
dott. Matteo Campitelli (Rovigno, 2 maggio 1828-ivi, 25 aprile 1906)
Giuseppe Corazza (Montona, 9 agosto 1812-ivi, 12 aprile 1882)
dott. Giorgio Franco (Buie, 13 dicembre 1824-ivi, 19 aprile 1907)
dott. Francesco Gabrielli (Pirano, 16 dicembre 1830-ivi, 28 giugno 1884)
dott. Antonio Madonizza (Capodistria, 8 febbraio 1806-Parenzo, 1 settembre 1870)
dott. Adamo Mrach (Pisino, 24 dicembre 1827-Gorizia, 9 settembre 1908)
dott. Egidio Mrach (Pisino, 3 settembre 1823-ivi, 10 dicembre 1903)
dott. Girolamo Minach (Volosca, 30 agosto 1808-ivi, 22 agosto 1917)
dott. Domenico Padovan (Parenzo, 9 ottobre 1808-ivi, 15 novembre 1864)
dott. Antonio Scampicchio (Albona, 5 ottobre 1830-ivi, 30 marzo 1912)
dott. Nazario Stradi (Capodistria, 17 dicembre 1834-ivi, 14 maggio 1915)
Pietro Tomasi (Montona, 11 marzo 1832-ivi, 1 gennaio 1877)
dott. Francesco Venier (Pirano, 27 gennaio 1799-ivi, 30 agosto 1881)
dott. Giuseppe Vergottini (Parenzo, 27 giugno 1815-ivi, 15 dicembre 1884)
da: Giovanni Quarantotti, Storia della Dieta del Nessuno, in “Atti e Memorie della Società Istriana di Archeologia e Storia Patria”, vol. XLVIII, Pola 1936, pp. 168-173.
(courtesy MLH)