Nel giorno in cui il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia scatenava l’insurrezione a Milano e nelle altre principali città ormai abbandonate dai tedeschi in ritirata, all’estremo nord-est la situazione era ben diversa. Le truppe anglo-americane erano lontane dalla Venezia Giulia poiché, una volta sfondata la Linea Gotica, la priorità era raggiungere il Brennero e da lì arrivare rapidamente in Baviera, ove si temeva che si sarebbe concentrata l’ultima disperata resistenza germanica.
Marciava invece a tappe forzate l’Esercito Popolare di Liberazione della Jugoslavia, interessato più a raggiungere Trieste, Gorizia, Pola e Fiume che a riprendere il controllo di città come Lubiana e Zagabria, la cui appartenenza alla Jugoslavia nessuno avrebbe messo in discussione. Già dopo l’8 settembre 1943 in Istria e dopo la cacciata degli italo-tedeschi da Zara a novembre del ’44 si era visto cosa significasse essere “liberati” dalle truppe guidate dal maresciallo Josip Broz, detto Tito: l’eliminazione non solo degli ex gerarchi fascisti, ma anche degli elementi più importanti dell’italianità autoctona e di coloro i quali rappresentavano per il loro ruolo istituzionale e sociale la presenza dello Stato italiano.
Una siffatta epurazione politica era propedeutica all’annessione alla rinascente Jugoslavia di province che erano internazionalmente riconosciute come appartenenti all’Italia, la quale, però, avendo firmato la resa incondizionata, non rappresentava più un soggetto di diritto internazionale.
A complicare ulteriormente la situazione c’era la scissione della Resistenza italiana locale, in cui il PCI aveva non solo abbandonato il CLN per aderire alla lotta partigiana a guida “titina” che rivendicava l’annessione della Venezia Giulia alla Jugoslavia comunista, ma anche eliminato alle malghe di Porzus i vertici della brigata partigiana Osoppo, rei di essere tanto antifascisti quanto patrioti ed anticomunisti e perciò contrari all’espansionismo jugoslavo.
Consapevoli di questi tragici precedenti, i Volontari della Libertà di Trieste scatenarono l’insurrezione cittadina il 30 aprile, confidando nell’arrivo delle truppe neozelandesi che stavano finalmente avanzando nella pianura friulana. Le truppe tedesche si asserragliarono in alcune postazioni facilmente difendibili, ma la mattina del primo maggio le formazioni partigiane slovene e comuniste che operavano nelle periferie e nei sobborghi poterono esultare poiché la cosiddetta “corsa per Trieste” era stata vinta da Tito, le cui avanguardie stavano entrando nel capoluogo giuliano.
Nei giorni successivi, mentre il CLN triestino veniva esautorato e le manifestazioni di italianità venivano represse con morti e feriti, anche a Gorizia, Fiume ed in Istria iniziava una nuova occupazione straniera. Retate organizzate grazie alla rete spionistica allestita dall’OZNA – la polizia segreta jugoslava – portavano all’arresto, alla deportazione o all’infoibamento di centinaia di oppositori al progetto annessionista jugoslavo, ivi compresi ex combattenti partigiani. Timorosi di suscitare attriti con Stalin – che era ancora un prezioso alleato, in quella fase finale della Seconda guerra mondiale, per stroncare il Giappone – gli angloamericani fecero poco o nulla per frenare una carneficina che avrebbe mietuto circa 10.000 vittime, considerando anche i soldati fatti prigionieri e poi massacrati in spregio alle convenzioni di guerra.
Appena il 9 giugno convinsero Tito a lasciare almeno Trieste, Gorizia e Pola, che passavano così sotto l’Amministrazione militare angloamericana, in quanto considerate località importanti per le linee di rifornimento destinate alle truppe che avevano preso il controllo dell’Austria. Nel resto dell’Istria e a Fiume sarebbe continuata la persecuzione degli italiani nel clima di terrore, che avrebbe indotto il 90% della comunità italiana autoctona ad abbandonare le terre in cui viveva radicata da secoli. Lo slogan della fratellanza italo-jugoslava in nome dell’antifascismo era una patina dietro cui si celavano i vecchi progetti espansionistici sloveni e croati rivolti anche a città e territori in cui gli slavi rappresentavano una minoranza, laddove gli italiani erano considerati quinte colonne di uno Stato che era entrato nella sfera d’influenza del mondo capitalista a guida statunitense e quindi bisognava assicurarsi la loro fedeltà ideologica ovvero l’eliminazione o l’allontanamento.
Per gli italiani dell’Adriatico orientale il 25 aprile ha tradizionalmente rappresentato la ricorrenza di San Marco, il cui leone alato era simbolo di quella Serenissima Repubblica di Venezia che per secoli mantenne Istria e Dalmazia collegate alla penisola italica, salvaguardandone lingua e cultura. Oggi è diventata la data in cui ricordare che la Liberazione non ha riguardato tutti gli italiani e che in quella primavera del 1945 nelle terre annesse dopo i sacrifici della Grande Guerra se ne stava sostituendo un’altra che il 10 febbraio 1947 avrebbe ricevuto la consacrazione di un Trattato di Pace che scaricava su istriani, fiumani e dalmati l’onere di un’Italia uscita sconfitta dal secondo conflitto mondiale. In un clima di vera pacificazione la Storia dell’Adriatico orientale dovrebbe essere patrimonio nazionale, non più rinchiusa in una pagina locale, misconosciuta, irrilevante.
Davide Rossi – Lorenzo Salimbeni
Fonte: L’Adige di Verona