Escono per Rubbettino a cura di Gianni Scipione Rossi gli scritti personali dello storico e diplomatico: una testimonianza diretta sul nostro Paese e l’Europa tra le due guerre
Un romanzo storico sull’Italia e sull’Europa della prima metà del Novecento, un tutt’altro che nostalgico come eravamo, una sorta di biografia della nazione. Questo è l’approccio più adeguato per disporsi alla lettura delle pagine di “Attilio Tamaro: il diario di un italiano 1911 – 1949” (Rubbettino, 1066 pagg., 49 euro) secondo la chiave che ne offre il curatore, Gianni Scipione Rossi, giornalista, già direttore della informazione parlamentare della Rai e del centro di formazione e della scuola di giornalismo di Perugia, vicepresidente della Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice. Rossi ha vissuto a Trieste nell’adolescenza e si è riavvicinato alla città proprio prendendo in mano i diari di Tamaro, la cui pubblicazione esce in veste molto curata: oltre un migliaio di pagine complessive con una sostanziosa parte dedicata alla biografia di Tamaro perché, sostiene Rossi “se non si conosce la vita dell’autore è difficile capire il suo diario privato, e d’altro canto solo il diario consente di farsi un’idea dell’autore e dell’epoca in cui è vissuto”. Tamaro è stato un protagonista della storia politica e culturale non solo di quella Trieste dove nacque (nel 1884), ma anche più ampiamente della vicenda italiana. Le sue considerazioni e private riflessioni, mai pensate per la pubblicazione, sono state raccolte nell’arco di quasi cinquant’anni. “Io spero – scrive Tamaro ai primi di febbraio 1942 – ma non pretendo di riportare la verità, registro per la mia memoria, per rammentarmene domani”. E, più oltre, “mi sforzo di essere oggettivo come uno specchio”. Ma quanto ci si può fidare di un diario? si chiede giustamente Rossi. Quale grado di affidabilità attribuirvi? Ci sono altre letture del Novecento giuliano, allora perché ascoltare la voce lontana di questo giornalista e diplomatico che è stato uno dei massimi esponenti dell’irredentismo giuliano?
Come storico è stato settario, Rossi ne è ben consapevole: Elio Apih criticò senza mezzi termini l’impianto della sua ‘Storia di Trieste’, costruita “su interpretazioni acritiche, sull’italianità come dato assoluto, come sola realtà positiva della storia locale” e Giulio Cervani chiosava come fosse testimonianza di un mondo diverso, lontano. Eppure Renzo De Felice considerava Tamaro una fonte bene informata e Rossi nota che Tamaro non fu un nostalgico, ma un critico spettatore degli avvenimenti e la sua narrazione trasmette lo spirito dell’epoca. Inoltre le pagine del diario potrebbero aprire nuovi filoni storiografici. Sulla banda di affaristi che avrebbe operato a Trieste all’ombra di Giuseppe Cobolli Gigli, per esempio.
Aldo Vidussoni, il giovane segretario del Partito fascista (quello che, appreso della nomina aveva detto in dialetto: “Ma mi non me sento de far el segretario de partito, mi non so cossa poderò far”) ha davvero denunciato i loro intrighi a Mussolini? Ma leggere Tamaro è utile anche per un altro motivo: perché attraverso la sua parabola possiamo capire quella di una città, Trieste, e tentare di penetrare le sue contraddizioni novecentesche. Tamaro poneva Trieste al centro di un’area vasta che comprendeva non solo la penisola istriana, ma anche la Dalmazia. Una visione che aveva origini sentimentali, ma che si sviluppava in una concezione geopolitica che vedeva la sponda orientale dell’Adriatico come parte integrante della nazione italiana. La sua cultura era quella dell’idea nazionale e della patria propria dei liberal nazionali triestini, partito interclassista guidato da un’efficiente e operosa borghesia, così lontana da quella espressa dall’Italia che la guerra vittoriosa aveva portato a Trieste. Era antidemocratico, perché se doveva prevalere il diritto del numero, le terre di frontiera sarebbero andate agli slavi. Come per tanti giuliani, la scintilla irredentista scocca dopo aver appreso della sconfitta di Adua; nel 1903 manifesta per l’università di Trieste, allo scoppio della guerra parte volontario, quindi si avvicina ai nazionalisti senza tuttavia prendere la tessera, e poi è quasi naturale il suo scivolamento nel fascismo. Ma il suo fascismo sarà sempre diverso da quello dei più accesi o zelanti sostenitori. Prendiamo la questione ebraica, che accompagnò Tamaro per tutta la vita. Non solo per i rapporti con Camillo Ara, Segrè Sartorio, Saba e con gli irredentisti di religione o origine israelitica, ma anche per l’amicizia con Camillo Castiglioni, triestino, rabbino di Roma dal 1904 al 1911 e poi tycoon a Vienna, la cui difesa costò a Tamaro il posto nella legazione di Berna. Il suo fascismo è rimescolato dopo il ’43: “Aborro il bolscevismo ma il discorso odierno di Mussolini è piuttosto comunista. Allora gli preferisco il bolscevismo autentico”.
Culturalmente distante dalla Rsi, vive con disperata angoscia in mezzo alle “rovine della patria”, alla guerra civile che infuria mentre il figlio Tullio entra nel Pci clandestino e rappresenta il partito nel Cln della Lombardia.
Dopo la guerra e l’epurazione, se ne sta in disparte, al di fuori dei partiti. Neo irredentista, difende l’integrità del territorio nazionale e il buon diritto dei giuliani e dalmati, pronto ad accettare anche il comunismo “se potesse redimere la Venezia Giulia e rifare potente la Patria”. Assisterà da Roma, dove muore nel 1956, al secondo ritorno di Trieste all’Italia.
di Paolo Marcolin – 10/07/2021
Fonte: Il Piccolo