Come visse la Trieste d’un secolo fa, nel 1923, il Capodanno? Come fu l’alba del nuovo anno, il 1924? Il Capodanno ha origini antiche, afferenti a quell’intreccio tra paganesimo greco -romano e cristianesimo alla base di tante tradizioni europee, ma nel caso delle feste, dei fuochi d’artificio e dei brindisi che solitamente associamo alla festa, queste hanno origini ottocentesche, sono un’invenzione relativamente moderna. I vittoriani furono i primi a recuperare il Natale col suo carico di rituali e doni, mutuati dall’infatuazione per il Medioevo. Il bacio sotto il vischio, l’albero con le decorazioni, i regali, le cartoline cogli auguri, i canti natalizi e così via… Tradizioni già largamente presenti, ma vivificate e largamente modernizzate due secoli addietro.
Colpisce, nel caso del Capodanno del 1923, l’ossessione per la ‘mancia‘. L’edizione del mattino de Il Piccolo, del 2 gennaio 1924, sottolineava come tutti, sotto Capodanno, sembrano voler spendere risparmi e soldi che normalmente non avevano, che anzi non avrebbero dovuto avere; travolti dalla frenesia dell’ultimo dell’anno, tutti regalavano o spendevano generose mance, specie all’osteria preferita. Il secondo elemento che trapela dai giornali è invece la presenza, già sottolineata nel caso di San Nicolò, di vasti gruppi di giovani che spadroneggiavano nella città. Non tre o quattro; intere comitive, quali oggigiorno sarebbe difficile immaginare.
In ogni caso anche nella Trieste d’un secolo fa gli umori erano alti; forse più che oggigiorno. Il Piccolo enfatizzava che “La vita per un giorno assume l’aspetto della favola; ed è questo, che quanto più si scende negli strati popolari profondi, dove l’occupazione è precaria e i guadagni quotidiani sono miseri e certi, e tanto più fa ritrovare quella sfrenata, quella pazza, quella irresistibile gaudiosità di Capodanno che non somiglia a nessun’altra e si propaga come un’onda di elettricità godereccia nella città”.
Tutti sembravano voler scambiare, regalare, prestare qualcosa che fosse “l’involtino di una strenna, il paio di bottiglie, il biglietto d’augurio, il biglietto d’invito, il mazzo di fiori, l’astuccio di confetture”.
Non mancava, passando al 1 gennaio 1924, chi ancora festeggiava, forse inconsapevole che un nuovo giorno si avvicinava col suo carico di preoccupazioni: “Poi ci sono quelli che hanno cantato tutta la notte, e ancora il mattino s’ingegnano di esser canori, ed aprono la bocca, e non hanno più voce, e sono soli a credere di cantare ancora. Mentre, in realtà, danzano. Una strana danza, dai passi molto disuguali, di genere presumibilmente indiano, come quelle di Mata Hari, e che talvolta va a finire con un ruzzolone sul lastrico”.
Qual era il ritratto usuale del triestino maschio durante il Capodanno; ebbene, secondo il giornale locale del 1924, “ubriaco fradicio, sudante vino, ciondolante, si caccia una mano nel petto per palpare e far suonare alcuni soldi che ancora gli restano nel fondo della camicia, e nell’altra mano tiene un leggiadro mazzetto di fiori avvolto in carta velina e un biglietto che forse sarà profumato”.
Era invece diverso il caso della gioventù, la quale passava “a tarda notte, in lunghe comitive, tutti a braccetto, schiamazzando e ridendo contro il vento che gela, con un passo che sembra andare alla conquista del mondo“. Niente eccessivi beveraggi, in questo caso, perchè invece “nella loro gioia, dove c’è tanto poco alcool e tanto calore naturale, essi vanno alla conquista del mondo. Ci guarderemo bene dal dir loro che esso non vale la pena d’esser conquistato”. Un augurio che, considerando come l’Europa sarebbe sprofondata in un nuovo conflitto mondiale meno di vent’anni dopo e come anche nel 2024 il mondo sembra di nuovo impegnato in diversi e violenti conflitti, pare quanto mai adatto.
Zeno Sarracino
Fonte: Trieste News – 01/01/2024