L’assoluzione dei generali Ante Gotovina e Mladen Markač da parte della corte d’appello del Tribunale internazionale per crimini nella ex Jugoslavia (ICTY) il 16 novembre 2012 è stata per molti una sorpresa ed uno shock.
I due erano stati in precedenza condannati in primo grado dall’ICTY per crimini contro l’umanità e crimini di guerra commessi dalle forze croate nell’estate del 1995. Hanno diretto l’Operazione Tempesta, che permise all’esercito croato di riprendere possesso dei territori sotto controllo dei ribelli serbi e di espellere più di 200.000 civili serbi dalla Croazia. In primo grado la corte ha ritenuto che quest’operazione militare comprese anche bombardamenti e uccisioni indiscriminate nel deliberato intento della leadership croata di ripulire permanentemente la regione delle Krajine della popolazione serba. Come conseguenza di questo, il generale Gotovina ed il generale Markač vennero condannati, nel 2011, rispettivamente a 24 e 18 anni di prigione.
La decisione della corte d’appello che ha ribaltato il verdetto ed ha liberato i due generali ha causato forti reazioni e sentimenti misti in Serbia e Croazia. Con l’eccezione di poche voci dissenzienti, la sentenza è stata celebrata in massa in Croazia dove i due generali sono considerati simboli di una guerra giusta combattuta contro gli aggressori serbi. Il nuovo verdetto avvalla il punto di vista secondo cui la Croazia è stata una vittima e non un aggressore e che le azioni militari condotte dall’esercito croato furono pienamente legittime. D’altro canto, il verdetto della corte d’appello, ha rinforzato in Serbia il sentimento di vittimizzazione e ingiustizia.
Il fatto che praticamente l’intera comunità serba di Croazia sia stata spazzata via sotto gli occhi della comunità internazionale è stata causa di profondo risentimento e frustrazione tra l’opinione pubblica serba. Che ora il Tribunale sanzioni quest’azione come legittima non può che rinforzare tali sentimenti.
Invece di ridare dignità alle vittime ed aprire la strada alla riconciliazione, il Tribunale ha solo esacerbato le tensioni e rafforzato le divisioni in merito all’interpretazione delle guerre della secessione jugoslava. A quasi vent’anni dalla sua creazione, l’ICTY si è dimostrato incapace di rispondere alla propria missione di contribuire alla costruzione ed al mantenimento della pace nell’ex Jugoslavia. Questo non solo oscura l’eredità dell’ICTY ma mette in dubbio una delle premesse alla base della giustizia transizionale: che i processi per crimini di guerra (internazionali) possano promuovere la pace e la riconciliazione negli stati post- conflitto.
La convinzione che i tribunali internazionali possano contribuire alla pace ed alla riconciliazione in stati post-conflitto è stata tra i motivi che hanno portato alla creazione dell’ICTY nel 1993, a seguito della risoluzione 827 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.
Paradossalmente quest’idea vide tra i suoi più accesi sostenitori Theodor Meron, il giudice che ha poi presieduto la corte d’appello che ha assolto Gotovina e Markač. Meron sosteneva che la creazione di un tribunale per la ex Jugoslavia avrebbe funto da deterrente per futuri aggressori e “educato l’opinione pubblica a non tollerare le massive violazioni di diritti umani e di norme umanitarie”. Sosteneva anche l’opinione, condivisa ai tempi da molti attivisti per i diritti umani, che i processi contro i crimini di guerra avrebbero aperto la strada alla riconciliazione individuando responsabilità individuali e quindi rimuovendo lo stigma dall’intero gruppo etnico.
Questa fede nella capacità della giustizia internazionale di promuovere la pace e la riconciliazione nell’ex Jugoslavia si basava sulla convinzione che le responsabilità per le guerre jugoslave fossero da attribuire più alle élite politiche locali che non ad eredità storiche. Quest’interpretazione costituì una rottura radicale con la tesi dell’ ”odio antico” che caratterizzava i primi approcci occidentali al conflitto. Chi sosteneva la creazione dell’ICTY era fortemente convinto che le guerre jugoslave fossero macchinate da politici nazionalisti che manipolavano i loro sostenitori in modo da rimanere agganciati al potere. Di conseguenza i sostenitori del tribunale ritenevano che l’ICTY dovesse individuare le responsabilità per i crimini di guerra e costituire una narrativa storica autorevole sul conflitto, in modo da permettere la riconciliazione. Payam Akhavan, ex consigliere della procura dell’ICTY ha argomentato che l’ICTY avrebbe dovuto mirare a costruire un quadro generale del conflitto che potesse fungere da catarsi e da potenziale di riconciliazione “raccontando la verità in merito alle cause sottostanti e alle conseguenze della tragedia jugoslava”.
L’obiettivo dell’ICTY di promuovere la riconciliazione non è stata solo retorica. Il Tribunale è stato istituito sotto il capitolo VII della convenzione ONU quale un meccanismo vincolante per il raggiungimento e mantenimento della pace e della sicurezza. I casi portati davanti all’ICTY si sono quasi esclusivamente concentrati su ufficiali di alto rango, e quindi i leader politici e militari delle diverse parti coinvolte nel conflitto. I risultati delle inchieste sono stati disseminati in tutta la ex Jugoslavia attraverso una rete di organizzazioni della società civile che avevano lo scopo di affrontare l’eredità dei crimini di guerra. Ed è in questo modo che ha messo radici nell’ex Jugoslavia il progetto di giustizia transizionale.
Nonostante le buone intenzioni, l’ICTY ha fallito nel raccogliere il consenso dove intendeva farlo. Questo è vero in particolare in Serbia dove i sondaggi mostrano che il sostegno al Tribunale è variato, nell’ultimo decennio, tra l’8 e il 13%. Ma l’ostilità nei confronti dell’ICTY è stata un elemento in comune in tutta la ex Jugoslavia. L’ICTY non è mai stato molto popolare in Croazia e Bosnia; sondaggi condotti nel 2010 mostrano che il 71% degli intervistati in Croazia e il 56% in Bosnia avevano opinioni negative sul lavoro del Tribunale.
In parte questo è certo imputabile alle élite politiche locali che o si sono opposte in modo manifesto al Tribunale o hanno collaborato in modo riluttante con quest’ultimo. Negli anni ’90 il regime di Milošević ha demonizzato il Tribunale quale fulcro di una cospirazione anti-serba e strumento dell’imperialismo occidentale, mentre il presidente Franjo Tuđman ha denunciato a più riprese i tentativi dell’ICTY di perseguire gli imputati croati per crimini di guerra come attacchi alla lotta legittima per l’indipendenza della Croazia. Dopo il 2000, con la morte di Tuđman e la caduta di Milošević, il contesto politico locale è divenuto più favorevole al Tribunale. Le nuove autorità in Serbia e Croazia erano in principio a sostegno degli obiettivi del Tribunale ma dovettero affrontare una fortissima opposizione al trasferimento di sospettati di crimini di guerra all’Aja. Questo causò una cooperazione lenta e sporadica con il Tribunale da parte di entrambi i paesi.
Alla fine la forte condizionalità posta sia dagli Stati Uniti ma in particolare dall’Unione europea portarono i governi di Croazia e Serbia a consegnare tutti gli indiziati per crimini di guerra. Ma questo avvenne ad un prezzo molto alto da pagare: ha ulteriormente delegittimato l’ICTY agli occhi delle popolazioni locali mostrando la consegna degli indiziati per crimini di guerra come un “bene” scambiato in cambio dell’integrazione nell’UE.
Ma la mancanza di legittimità dell’ICTY è anche legata alle performance controverse del Tribunale stesso che, in un alto numero di casi, è risultato deludente anche ai più ardenti sostenitori della giustizia internazionale. Una delle prime e più significative critiche è venuta da gruppi di vittime della Bosnia Erzegovina che hanno contestato la pratica del Tribunale di comminare pene leggere in cambio di ammissioni di colpevolezza. Questo è stato particolarmente evidente nel caso di Biljana Plavšić, ex leader dei serbo-bosniaci, che ha deciso di patteggiare ed è stata poi condannata a 11 anni di prigione. La reputazione del Tribunale è stata di nuovo colpita con la gestione fallimentare del processo Milošević e con la sua fine drammatica, che ha lasciato sia le vittime che l’opinione pubblica senza un verdetto in merito al ruolo nei conflitti jugoslavi dell’ex uomo forte della Serbia. Il fallimento dell’ICTY nel portare a termine il suo processo più importante è stato un durissimo colpo alla sua legittimità.
I comportamenti dell’ICTY hanno avuto particolare responsabilità nel dare forma alle attitudini dell’opinione pubblica in Serbia. Il fatto che Vojislav Šešelj, leader dei nazionalisti del Partito radicale serbo, sia a processo ormai da più di 9 anni mette in dubbio seriamente l’impegno del Tribunale per i diritti umani e per un processo equo. Qualsiasi cosa si pensi di Šešelj e delle sue opinioni politiche, il suo diritto ad un processo in tempi ragionevoli è stato violato in modo innegabile.
La credibilità dell’ICTY in Serbia è stata ulteriormente minata dal rilascio di Naser Orić e Ramush Haradinaj nel 2008. La corte d’appello ritenne Naser Orić – il comandante delle forze musulmano-bosniache di stanza a Srebrenica – non colpevole sulla base del fatto che non avrebbe avuto effettivo controllo di quelle unità che commisero crimini di guerra nei confronti di civili serbi.
Ramush Haradinaj, ex membro dell’Esercito di liberazione del Kosovo, è stato rilasciato a seguito dell’incapacità della procura di garantire la sicurezza ai principali testimoni coinvolti nel processo, nove dei quali sono stati assassinati durante il processo stesso. Nel 2010 la corte di appello ha ordinato una parziale rivisitazione del caso ma Haradinaj è stato assolto una seconda volta il 29 novembre 2012 e sono saliti a 19 i potenziali testimoni assassinati.
In questo contesto, l’assoluzione di Gotovina e Markač da parte della corte d’appello è la goccia che ha fatto traboccare il vaso per quanto riguarda la legittimità dell’ICTY, perlomeno in Serbia. La sentenza costituisce il maggior dietro-front in merito ad un giudizio nella storia dell’ICTY. L’appello ha di fatto contraddetto l’intera analisi fattuale della corte di primo grado. Quest’ultima aveva stabilito che, considerate le dichiarazioni di ufficiali di alto rango fatte in pubblico e in privato prima dell’Operazione Tempesta, gli attacchi illegali condotti dall’esercito croato facevano parte di un piano più generale per liberarsi dei serbi di Croazia. La corte d’appello ha negato questa linea interpretativa mettendo in dubbio il criterio sul quale ci si era basati per definire gli “attacchi illegali” (attacchi che avevano un raggio di errore di più di 200 metri).
Avendo contraddetto l’interpretazione della corte di primo grado che andava a definire i cosiddetti “attacchi illegali”, a quel punto la corte di appello ha proseguito affermando che quindi non vi è alcuna prova dell’esistenza di un piano più generale volto a rimuovere in modo permanente la popolazione serba dalla Kaijna. La decisione è stata presa da un maggioranza minima: due dei cinque giudici costitutivi della corte d’appello hanno reso note opinioni dissenzienti che entrano a far parte della storia. Per essere espliciti, il giudice Pocar ha affermato: “Dissento in modo netto dall’intero giudizio di appello che contraddice ogni senso di giustizia”.
Le scarse performance dell’ICTY hanno profonde implicazioni sulla prospettiva di riconciliazione nella ex Jugoslavia e per la giustizia transizionale nei Balcani e oltre. La sentenza della corte d’appello nei casi Gotovina e Markač lascia un grande vuoto nella comprensione e nell’interpretazione di quanto accaduto in Kraijna nel 1995. L’impunità dell’intera leadership croata lascia aperta la questione su chi sia il responsabile della rimozione forzata e dei crimini di guerra commessi contro la popolazione serba della Kraijna.
Questo risultato rafforza la tesi che va per la maggiore in Croazia sul fatto che l’esodo serbo sia stato organizzato dalla stessa leadership dei serbi di Kraijna, che fuggirono davanti all’offensiva dei militari croati. Consolida inoltre la narrativa trionfante dell’Operazione Tempesta, celebrata ogni anno come i giorni della vittoria e come festa nazionale, un insulto nei confronti delle vittime e del pubblico serbo che invece la vedono come la più massiccia operazione di pulizia etnica dai tempi della Seconda guerra mondiale.
Il presidente croato ha riconosciuto questo stato di cose dichiarando che Croazia e Serbia hanno punti di vista diversi sulla storia. Questo è esattamente quello che l’ICTY cercava di evitare in modo da interrompere il circolo della violenza. Infatti sono state proprio le memorie contrastanti in merito alla Seconda guerra mondiale ad aver fornito un terreno fertile per lo scoppio nei conflitti jugoslavi negli anni ‘90.
La sentenza Gotovina e Markač è un duro colpo anche per gli attivisti che si sono battuti a favore della giustizia transizionale in Croazia e Serbia. In entrambi i paesi le organizzazioni per i diritti umani sono partite da quanto scoperto dall’ICTY per porre davanti alle rispettive società i crimini di guerra compiuti in nome dei progetti nazionali serbo e croato. Questo non è più possibile. In Serbia il Tribunale ha perso ogni credibilità anche tra quelli che sono, in principio, a sostegno dei suoi intenti. Per la prima volta attivisti e politici che si battono per i diritti umani hanno concorso nelle dichiarazioni critiche nei confronti del tribunale.
Sarà ora molto difficile convincere il pubblico serbo che Karadžić e Mladić sono criminali di guerra proprio perché lo dimostrerebbe in prospettiva una sentenza dell’ICTY (sempre nel caso vengano dichiarati colpevoli). Allo stesso tempo, il fatto che la leadership croata sia uscita senza macchia per quanto riguarda la responsabilità di crimini di guerra – e nessun altro è sotto processo per tali crimini – implica che la questione dei crimini di guerra in Croazia sia divenuta una non-questione. Un ex attivista contro la guerra di Zagabria la pone in questo modo: “Purtroppo questa sentenza solidifica il mito fondante croato e tutto quello che noi attivisti contro la guerra abbiamo fatto negli anni ‘90 diviene tradimento”. D’ora in poi chi vorrà promuovere pace e riconciliazione nell’ex Jugoslavia non potrà certo più pensare di farlo attraverso le aule dei tribunali.
A livello più generale questo stato delle cose mina la pretesa che i tribunali internazionali possano promuovere la pace a la riconciliazione in situazioni post-conflitto, il che è stato un elemento chiave delle politiche legate alla giustizia transizionale negli ultimi due decenni. Negli anni ‘90 gli attivisti per i diritti umani e avvocati internazionali hanno argomentato con successo che la creazione di tribunali internazionali avrebbe contribuito alla pace e alla riconciliazione fungendo da deterrente contro le atrocità, individualizzando responsabilità e producendo un archivio storico che avrebbe poi impedito la negazione di tali crimini. L’ICTY li ha smentiti in tutto. Invece di curare le ferite e chiudere capitoli dolorosi, il Tribunale ha permesso che le controversie sulle guerre jugoslave bruciassero per ormai quasi due decenni. Questo disastro chiama ad una riconcettualizzazione della giustizia transizionale e una nuova valutazione in merito ai tribunali internazionali come strumenti di ricostruzione post-conflitto.
www.balcanicaucaso.org 4 gennaio 2013