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Il deposito dei destini infranti (Voce del Popolo 21set13)

Oggetti personali, strumenti di lavoro, mobili, ricordi, bagagli carichi soprattutto di dolore: sono le masserizie degli esuli, tracce materiali di vite passate e delle ferite inferte dalla Storia al popolo-giuliano dalmata che, a seguito del Trattato di Pace di Parigi del 1947, intraprese la via dell’esodo. Fardelli ingombranti, abbandonati perché difficili da trasportare nel tragitto verso una nuova esistenza; altri depositati solo provvisoriamente, nella speranza di poterli riprendere un giorno, e insieme a loro forse anche le terre lasciate. Un’illusione, un’utopia. I proprietari di queste masserizie non ritorneranno nelle città e nei paesi d’origine, e neppure a recuperare le loro cose.

Ancor oggi giacciono lì, da oltre mezzo secolo, accatastate nel Magazzino numero 18 del Porto vecchio di Trieste. Coperte da uno strato di polvere e di oblio. Un luogo solitario, che offre uno scenario irreale quasi sospeso nel tempo. Impressionante. La sensibilità artistica del cantautore romano Simone Cristicchi ne è rimasta profondamente colpita. Ne è nata prima una canzone, inserita nel CD di quest’anno “Album di Famiglia”, e ora pure uno spettacolo, che debutterà il 22 ottobre al Rossetti di Trieste.

Il Magazzino 18 è gestito dall’Istituto Regionale per la Cultura Istriano-fiumano-dalmata (IRCI), che ha usato una parte delle tonnellate e tonnellate di mobili, suppellettili, attrezzi, quadri, fotografie, giocattoli, vestiario e tanto altro per allestire un percorso espositivo al Civico Museo della Civiltà Istriana, Fiumana e Dalmata di via Torino 8. Il resto è ancora in attesa di una destinazione. Grazie alla disponibilità dell’IRCI e del suo direttore, Piero Delbello, il “guardiano” delle masserizie, abbiamo potuto sbirciare tra gli oggetti, alla riscoperta delle vicende di cui sono testimoni silenziosi. Presto, come dicevamo, torneranno sul grande palcoscenico, anche se, ovviamente, in modo indiretto.

“Queste sono le masserizie mai riprese dagli esuli – introduce il nostro cicerone, Piero Delbello –. Molti degli esuli, una volta sistemata la loro esistenza, si sono ripresi i loro averi. Altri non l’hanno invece mai fatto. Per svariati motivi. Ad esempio, non trovando lavoro in Italia si sono imbarcati per l’America, il Canada o l’Australia”.

Nella stragrande maggioranza si tratta di “anonimi”. Ma nel percorso ci imbattiamo anche in dei nomi. C’è una sedia che, sul retro, porta scritto: Mohoraz Carolina, matricola d’esodo 2967. C’è poi un armadio appartenuto a Gastone Benussi. I numeri sono quelli d’identificazione delle schede dell’Acomin, l’Agenzia commerciale internazionale incaricata dello smistamento da Pola. E poi addirittura un vero e proprio “fogoler”, la cucina di una tipica casa istriana, ma anche i più moderni “spàrcher”.

Circa duemila metri quadrati, sale con i muri scrostati, zeppi di fotografie ingiallite, utensili, posate, specchi, sedie, cucine, letti, macchine da cucire, utensili per officina di ogni genere, vasi di vetro con dentro quello che non si butta mai: bottoni di foggia varia, pezzi di spago, aghi. Ma ci sono anche le scatole del Comando Militare Marittimo di Pola. L’entrata poi, è un murale di immagini, di ritratti disposti l’uno accanto all’altro. Delbello specifica: “Questa parte è il frutto dell’esposizione ‘Volti senza nome’, che abbiamo recuperato tra le masserizie degli esuli. Sono i volti dell’esodo. Purtroppo non sappiamo chi siano gli individui delle foto. Qualche volta è riportato un nome, ma nella maggior parte dei casi niente che ci aiuti a ricostruire l’identità del proprietario”

Il suo primo impatto con questo sito?

“Ho trovato il magazzino che era tutto in scompiglio, una grande muraglia di mobili che a malapena permetteva di passare per entrarci. Le masserizie sono giunte da tutte le Prefetture d’Italia dove c’era stato un campo profughi giuliano-dalmata e sistemate dapprima al Magazzino 22. Poi, negli anni ’80, è stato deciso di demolirlo per costruire l’Adriaterminal. Ricordo che all’epoca furono avanzate delle proposte assurde, raccapriccianti, come sbarazzarsi di tutto, darle al rogo. Ovviamente la comunità degli esuli si è opposta fermamente, mentre la Prefettura e l’Avvocatura di Stato fecero un ultimo appello ai proprietari, dopodiché arrivò la dichiarazione ufficiale di ‘res nullius’, ossia cosa di nessuno.

Venne concesso il Magazzino 26. Da soli, con una fatica mostruosa, le abbiamo traslocate, pezzo per pezzo al Magazzino 18. In mezzo a questo lavoro scoppiò effettivamente un incendio e penso che andò perso almeno il 50 p.c. dei materiali. Con una poderosa opera di accatastamento e scaffalatura, fatta dall’IRCI con il concorso di tanti volontari, i giganteschi vani sono diventati corridoi di almeno 30 metri di lunghezza l’uno, che hanno per pareti gli armadi, in fila, e uno sopra l’altro. Mezzo salone è occupato da pile di testiere per letti. Un’intera ala è dominata da una montagna di sedie messe l’una sull’altra. Ed è proprio in questa zona, quasi un nido di ragno composto da sedie, che l’urlo degli esuli è palpabile”.

Qual è, secondo lei, l’oggetto di maggior significato storico ed emotivo di questa collezione?

“C’è una sola risposta possibile a questa domanda. Non esiste un particolare oggetto che, preso da solo parli, parli di questa vicenda più o meglio degli altri. Prese singolarmente, tutte queste cose non comunicano assolutamente niente. Riescono a trasmettere un messaggio unicamente se prese come un grande insieme. Ed è lì in quel momento che si percepisce la dimensione dell’esodo, del suo dolore”.

Il futuro?

“È un futuro da interpretare come l’Ellis Island di New York, ossia quello che fu il principale punto d’ingresso per gli immigranti che sbarcavano negli Stati Uniti e che oggi ospita, invece, il Museo dell’Immigrazione. Secondo me, il futuro delle masserizie degli esuli è il Porto di Trieste. Siccome da 60 anni le masserizie sono ubicate in questo luogo, dovrebbero rimanere qui come museo etnografico. Nessun altro museo potrebbe ospitarle con altrettanta forza narrativa. Occorrerà aspettare per vedere cosa succede con questa parte del Porto, e sperare in una sua riqualificazione. In questo modo le masserizie potrebbero essere conservate così come sono.

Messe in sicurezza, chiuse con delle pareti di vetro, in modo che chiunque, e sono tanti che lo desiderano, sarebbe portato a vederle. Solamente così è possibile captare la sensazione di cosa significhi andarsene portandosi via con sé tutto quello che si poteva portare via, abbandonando la propria terra natia. Un luogo simbolico che raccolga e dia testimonianza della nostra gente che se n’è andata”.

L’auspicio è che, con i riflettori puntati su questa questione, grazie anche allo spettacolo, si crei il clima favorevole per la realizzazione di questo progetto.

Gianfranco Miksa
“la Voce del Popolo” 21 settembre 2013

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