Proseguono presso la Casa del Ricordo di Roma i convegni di studi dedicati a “Il mondo culturale in Istria, Fiume e Dalmazia dal 1700 al 1900” e mercoledì 27 aprile 2016 sono iniziati gli appuntamenti dedicati al Novecento.
Introdotto e moderato da Marco Occhipinti, dirigente del Comitato provinciale di Roma dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, l’incontro si è aperto con una sorta di dialogo platonico su Carlo Michelstaedter a cura della professoressa Donatella Schürzel, presidente del Comitato romano dell’ANVGD, e del professor Antonio Fanella, insegnante e saggista: l’una ha sviscerato il tema “Carlo Michelstaedter: poesia, lettere e il suo rapporto con l’Istria”, l’altro ha proposto l’argomento “Amore per la vita e attrazione per la morte in Michelstaedter”. Il giovane filosofo, nato nel 1887 e morto suicida nel 1911 poco prima di discutere la sua tesi di laurea, apparteneva alla comunità ebraica goriziana, la quale aveva sposato la causa dell’italianità ed egli, come Scipio Slataper, esprimeva questa scelta patriottica attraverso una cura maniacale per l’uso della lingua italiana nei suoi scritti. Pur avendo frequentato il Ginnasio tedesco del capoluogo isontino (l’idioma germanico rappresentava la lingua della cultura nell’Impero asutro-ungarico), compì gli studi universitari a Firenze, accostandosi alla prestigiosa rivista “La Voce”. Nelle sue opere, protese a superare il dolore e a riuscire a trarre gioia dalla vita, evidenti furono gli influssi di Saba, d’Annunzio e Fogazzaro tra gli altri; egli riteneva che l’uomo fosse strutturalmente incapace di accettare il dolore, accostandosi in questo a Schopenauer, e che riconoscere la morte avrebbe fatto comprendere l’autenticità della vita. S’inserisce a questo punto il suo rapporto con l’Istria, meta di vacanza e luogo di riflessione e di serenità, nel quale elabora poesie e opere teatrali, alcune delle quali recentemente portate efficacemente in scena dal Dramma Italiano di Fiume. Ispirato dal mare di Pirano, Michelstaedter compose ad esempio “Onda per onda batte sullo scoglio”, componimento che esprime la sua inquietudine accostandosi allo stile degli ermetici: nella sua ricerca della poesia pura, fece sfoggio di riferimenti alla cultura classica greca e rappresentò l’acqua come un liquido amniotico rigeneratore. E da questo rapporto fra natura e cultura emergono posizioni anti-intellettualistiche quasi nietzscheane che lo portarono a dissociarsi dalla figura dell’intellettuale stipendiato: secondo lui retorica significava inautenticità ed i suoi strali andavano in particolare contro il positivismo che conduceva alla reificazione di tutto da cui origina una continua rincorsa a possedere le cose che comporta solo dolore. Analoghe critiche muoveva alle tanto decantate tecnica e modernità (sono gli anni in cui nasce il Futurismo), le quali intorpidiscono l’uomo, che invece rifiorisce a contatto con la natura. Il paesaggio istriano in particolare gli ispirava addirittura stimoli patriottici, poiché il verde dei boschi che scendono sino al mare, il bianco delle case e dei campanili di foggia veneziana ed il rosso della terra componevano ai suoi occhi un incantevole Tricolore. Ecco perché, una volta laureato, coltivava il progetto di trasferirsi a Pirano, ove vivere in maniera tale da dare libero sfogo alla propria vitalità, ma alla fine tra le luci e le ombre che agitavano la sua personalità, prevalsero le ombre che lo condussero al suicidio nella stanza di casa in cui si era relegato per concludere la tesi. Biagio Marin, cogliendone la grandezza, gli dedicò una poesia, oggi invece sono Claudio Magris e Sergio Campailla i cultori della memoria e dell’opera di Michelstaedter, i cui scritti originali sono custoditi presso la Biblioteca Isontina di Gorizia.
Marino Micich, direttore del Museo Archivio Storico di Fiume, si è, invece, soffermato su “Le riviste culturali a Fiume tra le due guerre mondiali 1918-1941”, argomento che svilupperà più ampiamente in un saggio di imminente uscita. Il capoluogo quarnerino appare un soggetto apparentemente ostico da trattare, poiché sembra una semplice città di mercanti, che addirittura si eclissa per tutto l’alto medioevo, ma in realtà, come osservava già nel 1923 Attilio De Poli, primo presidente della Società di Studi Fiumani in esilio, c’è tanta storiografia su Fiume, ma in tante lingue. Potrebbe sembrare quindi sorprendente la trasformazione della borghesia fiumana in forza rivoluzionaria sotto gli auspici di Gabriele d’Annunzio e della Reggenza italiana del Carnaro, ma già l’appello all’Italia del 30 ottobre 1918 aveva rivelato la passione che animava i nostri connazionali. Rappresentò un momentaneo ritorno al tradizionale autonomismo fiumano lo Stato libero di Fiume, nato in seguito al Trattato di Rapallo del novembre 1920 e cancellato dal trattato italo-jugoslavo del 27 gennaio 1924, dopo che già il 3 marzo 1922 gi squadristi giuliani capeggiati da Francesco Giunta avevano cacciato il presidente Riccardo Zanella. Nel fervore degli eventi vide la luce nel 1921 “La Fiumanella”, che si occupava di arte e letteratura, rappresentando anche in questi ambiti la naturale propensione dei fiumani al dialogo e a fungere da mediatori fra mondi diversi: d’altro canto, si diceva che a Fiume anche la persona più umile parlava quattro lingue. Tale rivista, la cui redazione era composta essenzialmente da autonomisti, Francesco Drenig in primis (sotto lo pseudonimo di Bruno Neri), ebbe vita breve, ma nel 1923-’24 circolò “Delta”, testata che tra i collaboratori avrebbe annoverato Antonio Widmar e l’ex legionario dannunziano Arturo Marpicati, il quale, pur avendo aderito al fascismo, rappresentava il rinnovamento e l’apertura che d’Annunzio portò a Fiume laddove il regime mussoliniano non fu in grado di capire la complessità della regione. Sulle medesime colonne apparvero pure scritti di Vladimir Nazor, acceso nazionalista croato, ma profondo conoscitore della lingua italiana, e di altri autori slavi. Venne fondata nel 1923 (per poi rinascere in esilio nel 1952) la Società di Studi Fiumani, articolata nelle sezioni di scienze economiche, scienze naturali e storia, da cui originò la rivista “Fiume” ad opera dei fratelli De Poli e Gigante, i cui studi sull’archeologia romana nel Carnaro godono oggi di rinnovata fortuna in Croazia. Molto particolare risulta la vicenda di “Termini”, sorta su impulso della sezione del Carnaro dell’Istituto Nazionale di Cultura Fascista, ma che svolse un prezioso ruolo di mediazione culturale, nella misura in cui sulle sue pagine scrissero autori slavi, fra i quali Ivo Andrić, e italiani del calibro di Ungaretti, Palazzeschi, Montale e Malaparte; nel 1941 uscì un numero italo-ungherese e l’anno seguente uno italo-rumeno: il fascismo aveva finalmente compreso le particolarità dell’anima fiumana.
Di “Joyce tra Pola e Trieste” ha brillantemente relazionato il professor Giorgio Marsan, vicepresidente del Comitato provinciale ANVGD, a partire dal travagliato arrivo dello scrittore nella Venezia Giulia dalla natia Irlanda, di cui non sopportava l’indipendentismo ed il cattolicesimo, perciò, una volta morta la madre, si reputò libero di trasferirsi a Parigi. Inseguendo un posto di lavoro come insegnate di inglese presso la Berlitz School, nel 1904 fece tappa assieme alla compagna Nora a Zurigo, quindi a Trieste (ove fu arrestato appena giunto mentre cercava di fare da traduttore a beneficio di quattro marinai inglesi ubriachi casualmente incontrati per strada) e infine a Pola. Qui ebbe rapidamente 200 allievi, quasi tutti ufficiali di Marina in servizio presso la base navale: la sua indole pacifista non sopportava di restare in una città militare, tanto più che le escursioni nell’entroterra lo misero a contatto con le popolazioni rurali slave di cui non tollerava l’ignoranza, per cui pochi mesi dopo rientrò a Trieste. Resosi conto che l’italiano imparato durante gli studi universitari sui testi di Dante e d’Annunzio a poco gli serviva, apprese il dialetto locale grazie alla frequentazione di Ettore Schmitz, futuro Italo Svevo, al quale impartiva lezioni private di inglese con cui arrotondava i magri introiti dell’insegnamento alla Berlitz. James Joyce manifestò la sua piena appartenenza alla cultura italofona chiamando i figli Giorgio e Lucia, mentre il fratello Stanislaus, dal quale si era fatto raggiungere, sposò la causa irredentista al punto da venire arrestato nel dicembre 1914, laddove la sorella li raggiunse ed avrebbe sposato un boemo. Dopo una pessima esperienza lavorativa in banca a Roma, l’autore dei “Dubliners” tornò a Trieste, ove cambio sette volte residenza, sempre causa sfratti: nonostante riempisse le sale anche tenendo conferenze in inglese su Shakespeare ed avesse molti allievi privati, visse sempre in miseria, tanto più che nel 1909 il progetto di aprire un cinema a Dublino, sull’esempio delle molteplici sale cinematografiche triestine, fallì miseramente. Pur essendo cittadino britannico, allo scoppio della Prima guerra mondiale poté rimanere a Trieste, dalla quale si allontanò invece al momento dell’entrata in guerra dell’Italia, riparando a Zurigo: tornato nel capoluogo giuliano al termine del conflitto, non riconobbe più la città cosmopolita e internazionale che amava, sicché la abbandonò definitivamente. Trieste, comunque gli ricordava tanto Dublino, città natale che sempre rimpiangeva, e fu il luogo in cui elaborò le sue opere più significative, anche se poi date alle stampe altrove: qua e là nelle sue pagine affiorano immagini di Trieste e di personaggi triestini, scrisse poesie dedicate ad angoli cittadini e un racconto intitolato “Giacomo Joyce” da cui si comprende la sua completa compenetrazione nell’anima italiana della città. Nei suoi componimenti tuttavia emergeva sempre la Dublino rimastagli impressa nel cuore nel 1904, allorché se ne allontanò, quasi come gli esuli giuliano-dalmati hanno conservato un’immagine congelata nella memoria della città natale al momento in cui furono costretti a lasciarla.
Lorenzo Salimbeni