“Mio padre era Bruno Baici, militare della Guardia di Finanza – ha scritto Claudia Baici nel web – e mio nonno era Antonio Baici, podestà di Cherso, i titini a Dresnice lo annegarono buttandolo in mare con una pietra al collo. Papà fu prelevato il 2 dicembre del 1945 a Cherso e fu internato prima nel gulag di Maribor, poi trasferito a Lubiana. Rimpatriò nel giugno del 1949. Tutto a guerra finita. Rimpatriò irriconoscibile da quanto era magro” [nella foto di apertura, i Finanzieri di Trieste deportati dai titini, ndr].
In un altro messaggio Claudia Baici ha ricordato che quando suo padre rimpatriò “lo ricoverano in un Sanatorio dove restò per un anno, raggiunse mia madre e mia sorella nel Campo profughi di Laterina d’Arezzo, venne riconfermato in servizio attivo. Ma non era più l’uomo di prima. Nel 1943 i titini prelevarono mio nonno Capitano Antonio Baici (facente Podestà ed esattore) insieme altri 17 Chersini con cariche importanti. Portati a Dresnice dove vennero sommariamente processati, mio nonno fu fucilato e buttato in mare. Gli altri tornarono a Cherso. Mio nonno fu anche Legionario Dannunziano su Fiume”.
Come ha scritto padre Flaminio Rocchi il processo si tenne a Drežnica, roccaforte partigiana, presso Ogulin, in terra croata (Rocchi F 1990 : 280). Si veda pure l’Albo dei Caduti della RSI, dove è segnato che Antonio Baici, nato il 12 dicembre 1876, viene fucilato dai titini il 10 ottobre 1943. L’eliminazione delle povere salme in mare, o nelle foibe era una pratica dei partigiani, per non scavare fosse.
Se nonno Antonio fa questa triste fine, va meglio invece a suo figlio Bruno. Si fa per dire. Bruno dovrà passare alcuni anni nei gulag di Tito per finire, con la famiglia, al grande Centro raccolta profughi (Crp) di Laterina, in Toscana. Infatti, secondo l’Archivio della Corte suprema militare di Belgrado, dopo il 3 maggio 1945, Baici Bruno riceve una condanna a “cinque anni” (Ballarini A, Sobolevski M 2002 : 224), ma come ha ricordato sua figlia Claudia, se ne esce prima della fine della pena, molto denutrito e debilitato, per andare nella disagevole baracca di un Campo profughi della matrigna Italia.
C’è il nominativo di Bruno Baici, in effetti, nell’Elenco alfabetico profughi giuliani, 1949-1961, del Comune di Laterina (AR), al fascicolo n. 132. Poi c’è scritto che esce dal Crp il 14 gennaio 1951, per la nuova residenza di Monfalcone (GO).
La furia titina, le foibe e gli annegamenti
Come hanno scritto i giornalisti de «Il Piccolo» di Trieste, nel 2011, la furia dei partigiani titini si scatenò a Cherso [Cres, in lingua croata, NdR] e in Istria nella primavera del 1945 contro altri Baici. “Non si limitarono a depredare e nei casi peggiori a infoibare possidenti, nobili e rappresentanti dello Stato italiano – si legge ne «Il Piccolo» – ma in alcuni casi si misero addirittura alle loro calcagna inseguendoli nella fuga e facendoli imprigionare. E in questo ruolo non agirono solo sloveni o croati, ma anche italiani votatisi alla causa comunista alcuni per ideologia, altri per opportunismo nella speranza di arricchirsi a loro scapito. È il caso che vede nella parte delle vittime alcuni italiani di Cherso che fuggiti dallo loro isola si rifugiarono a Trieste e durante i quaranta giorni dell’occupazione jugoslava si ritrovavano nell’officina per motori marittimi Godina di via Lazzaretto Vecchio. Un loro concittadino, Mario Padovan, secondo il racconto che ne fa un’altra chersina, Gianna Duda Marinelli, aveva a propria volta raggiunto Trieste, ma per smascherare i fuggitivi. Scoperto il luogo triestino di incontro lo segnalò all’Ozna, la terribile polizia segreta jugoslava. Così finì al Coroneo [carcere di Trieste, NdR] Giuseppe Baici, che al momento dell’occupazione di Cherso si trovava a Fiume con la famiglia e che poi era riuscito a raggiungere Trieste. Alla fine vedrà salva la propria vita, ma contemporaneamente perderà a Cherso la propria casa, i propri averi, le aziende, i possedimenti, i terreni suoi e quelli di tutti i suoi parenti. In precedenza un fratello e una sorella, Giusto e Maria avevano sofferto sorte peggiore: prelevati dai partigiani, deportati a Veglia e uccisi. Anche la stirpe dei Baici fu così prima decimata e poi estirpata con la violenza dalla propria terra e fu posta fine a una storia plurisecolare di lungimiranza e potenza industriali. I Baici erano infatti produttori agroalimentari, allevatori di bestiame, commercianti, albergatori, armatori. Sull’isolotto di Levrera allevavano agnelli, montoni e pecore, producevano carne, latte e formaggi, e commerciavano anche in lana con Lombardia e Veneto, avevano una riserva di caccia. Possedevano un macello e macellerie a Cherso e Lussinpiccolo, nel comune di Cherso una delle loro stanzie [poderi], quella di San Vito, si estendeva anche su 12 chilometri di spiaggia e comprendeva laghi artificiali. Le terre erano coltivate a oliveti, vigneti e frutteti, ma ampie erano anche le zone di bosco. Tra i possedimenti stalle, oleifici, porcili, tonnare. E poi casette campestri, abitazioni e la residenza principale, un palazzetto sulla piazza di Cherso, l’ex Palazzo pretorio, comprato nel 1927 e restaurato. Avevano anche la maggioranza della proprietà dell’albergo Fontego (oggi Hotel Cres) e una piccola flotta di commercio con i motovelieri Assiduo e Thalia, mentre l’Attinia era in fase di costruzione al cantiere Craglietto. Tutto venne confiscato. I Baici continuarono la loro vita a Trieste, ma la loro vena imprenditoriale era stata definitivamente prosciugata”. Fin qui l’interessante analisi de «Il Piccolo».
Un reportage su «L’Arena di Pola»
Un altro Antonio Baici di Cherso ha pubblicato, nel 1987, su «L’Arena di Pola» un incredibile pezzo di storia italiana, che qui si ripropone.
“I miei bisnonni, i miei nonni e tutti i miei familiari – ha scritto Antonio Baici – hanno passato la loro vita in un’isola bellissima, bagnata da un mare azzurro, ricco di pesce che compariva quotidianamente nelle loro mense. Sarebbero stati ancora oggi là e non avrebbero avuto di sicuro problemi economici se non fosse successo quello che è successo nella seconda guerra mondiale. A causa del trattato di pace mio padre, le mie zie e anche il nonno e la nonna hanno dovuto abbandonare la loro terra natale, e sono arrivati a Trieste senza soldi, senza lavoro, senza una casa. Hanno dovuto lottare per ricostruirsi una vita e non hanno avuto dallo Stato che un aiuto ben misero per tutto quello, un patrimonio immenso, che avevano perduto. Ho a casa un documento, lo chiamo documento anche se in realtà è una cosa strettamente personale, del 1896, scritto naturalmente in italiano. I miei antenati non conoscevano altra lingua che l’italiano, e la lingua d’uso di gran parte degli abitanti dell’isola era l’italiano. Quando l’Austria si impossessò dell’isola, i chersini seppellirono, gettarono in mare, nascosero il leone veneto che ornava la torre della piazza, perché non venisse distrutto. Fu ricollocato al suo posto abituale all’arrivo della nave Stocco nel 1918, quando tutte le terre irredente entrarono a far parte del Regno d’Italia, ma non si poté far niente per salvare il leone veneziano quando arrivarono le truppe di Tito. A Cherso, durante il Regno d’Italia. si svilupparono tantissime attività: si producevano olio, vino, miele. legna ed erano fiorenti l’agricoltura e l’allevamento”.
“I guai purtroppo cominciarono l’8 settembre 1943 – ha aggiunto Antono Baici – quando le armi, abbandonate dai nostri soldati che si ritiravano dalla Croazia e passavano per l’isola, finirono in mano ai partigiani di Tito. Il mio nonno con un altro gruppo di concittadini, come tanti altri, fu deportato in un campo di concentramento della Croazia, e ritornò, dopo alcuni mesi, solo perché i tedeschi avevano fatto un rastrellamento nella zona e lo avevano liberato. Se guardo le fotografie degli ebrei di Auschwitz e quella del mio nonno appena ritornato dal campo di concentramento, noto la stessa magrezza, la stessa sofferenza: pelle, ossa, sguardo smarrito e nient’altro. Grazie a Dio il mio nonno si è salvato. Altri civili, carabinieri, soldati sono finiti in mare, uccisi, fucilati, bruciati. So che il nonno diceva sempre che si è salvato solo perché non è salito mai sulle corriere della morte, cioè sui camion che trasportavano i debilitati, perché una voce, un presentimento, un impulso istintivo lo ha trattenuto. Dopo un periodo di occupazione tedesca, come si sa bene dalle cronache dell’epoca, le truppe di Tito ritornarono a Cherso nell’aprile del 1945 (la cittadina fu occupata due volte: una volta nel ’43 e un’altra volta nel ’45). Sono incominciate le deportazioni, le persecuzioni, le angherie di ogni tipo. La gente sopportava fiduciosa che l’isola sarebbe rimasta all’Italia e si preparavano di nascosto bandiere tricolori tingendo le bianche lenzuola dei letti in attesa dell’arrivo delle truppe alleate. Queste truppe tanto attese non arrivarono mai e cominciò la dolorosa odissea di quasi tutti gli isolani, che lasciarono tutto per poter vivere liberi nella loro madre Patria. Non a tutti venne concessa l’opzione e dovettero rimanere là, ma furono in pochi, soprattutto vecchi che non avevano possibilità di trovare un lavoro in Italia”.
“Questo è successo nella terra dei miei avi, ma anche nelle altre parti dell’Istria successe la stessa cosa. – ha riportato Antonio Baici – Furono riempite le foibe, le carceri, la gente fu bastonata e tutti non avevano fatto niente ed erano stati trattati peggio di assassini con la sola colpa di essere italiani. Ho visto uno spezzone del documentario «Pola addio» e mi ha colpito il fatto che gran parte della gente prendeva come ricordo un sasso o una zolla della loro terra con un volto che esprimeva tristezza e rassegnazione. I miei familiari hanno passato indicibili traversie, quattro miei prozii sono finiti nelle foibe, e il mio nonno e la mia nonna non sono mai più ritornati in questi quarant’anni nella loro isola. Ora lo Stato italiano ci dà dei soldi per i beni abbandonati, beni che furono rubati, ma nessuno potrà mai pagarci tutte le sofferenze: sono cose che non si possono dimenticare”. Così si conclude l’articolo di Antonio Baici del 1987.
Dedica
La redazione del blog dedica il presente saggio ai militi della Guardia di Finanza caduti nel periodo 1943-1945 in Istria, Fiume e Dalmazia a causa della violenza partigiana jugoslava. L’opera è dedicata anche agli agenti e ufficiali della GdF reclusi e soppressi con stenti e percosse nei gulag di Tito, attivi in Jugoslavia sino ai primi anni ’60 del Novecento.
Fonte digitale: Claudia Baici, esule di Cherso (PL), vive a Sarzana (SP), post in Facebook del 10 settembre 2020 e del 29 luglio 2022.
Fonti archivistiche
La presente ricerca si è potuta svolgere grazie alla collaborazione di Claudio Ausilio, delegato provinciale dell’ANVGD di Arezzo. Premesso che potrebbero esserci alcuni errori materiali di scrittura, i materiali d’archivio aretino sono stati raccolti da lui. Oltre alla fonte digitale, si ringraziano gli operatori e le autorità del Comune di Laterina Pergine Valdarno per la collaborazione riservata all’indagine storica.
– Comune di Laterina (AR), Elenco alfabetico profughi giuliani, 1949-1961, ms.
Cenni bibliografici
– Antonio Baici, “Così ho Imparato a conoscere Cherso”, «L’Arena di Pola», 11 luglio 1987.
– “Baici depredati a Cherso e inseguiti fino a Trieste”, «Il Piccolo», Trieste, 27 novembre 2011.
– Amleto Ballarini e Mihael Sobolevski (a cura di), Le vittime di nazionalità italiana a Fiume e dintorni (1939-1947) / Zrtve talijanske nacionalnosti u rijeci i okolici (1939.-1947.), Ministero dei Beni e delle Attività Culturali, Roma, 2002.
– Elenco “Livio Valentini”, Caduti della Repubblica Sociale Italiana, disponibile nel web.
– Luigi Tomaz, 1943-1945 Cherso in guerra, Riedizione ampliata con ulteriori testimonianze, suppl. n. 21 di Comunità Chersina, novembre 2014, n. 92. Suggerito da Claudia Baici nel web.
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Ricerca del Gruppo di lavoro storico-scientifico dell’ANVGD di Udine, coordinato dal prof. Elio Varutti e con la collaborazione di Claudio Ausilio (ANVGD di Arezzo). Testi e Networking a cura di Tulia Hannah Tiervo, Sebastiano Pio Zucchiatti e E. Varutti. Lettori: Claudio Ausilio, Sergio Satti, Barbara Rossi, Rosalba Meneghini (ANVGD di Udine) e il professor Enrico Modotti. Fotografie: Collezioni private. Adesioni: il Centro studi, ricerca e documentazione sull’esodo giuliano dalmata, Udine e l’ANVGD di Arezzo. Grazie al pittore Ennio Zangrando di Trieste. Copertina: Anonima Fumetti, Anime in transito, Grafic novel, 2019. Immagine ripresa da «mondoperaio», 1, 2019, che si ringrazia per la diffusione nel blog.
Altre fotografie dall’archivio dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia (ANVGD), Comitato Provinciale di Udine, che ha la sua sede in Via Aquileia, 29 – I piano, c/o ACLI – 33100 Udine – orario: da lunedì a venerdì ore 9,30-12,30. Presidente dell’ANVGD di Udine è Bruna Zuccolin. Vice presidente: Bruno Bonetti. Segretaria: Barbara Rossi. Sito web: http://anvgdud.it/
Fonte: Elio Varutti – 11/08/2022
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