ANVGD_cover-post-no-img

Il Giornale – 111107 – “Con i profumi istriani conquisto l’America”

di Gian Micalessin

È uno dei cuochi più famosi degli Stati Uniti. I suoi ristoranti da New York a Pittsburgh e a Kansas City sono il simbolo della cucina italoamericana. Ogni stagione insegna a far gli spaghetti a quattro milioni di telespettatori americani, ma se le chiedi il suo segreto Lidia Bastianich dice solo «semplicità». L’hanno nominata Grand Marshall, trasformata come Sofia Loren in un simbolo dell’Italia negli Stati Uniti. Ma il segreto di Lidia è ancora lì all’inizio di quella strada che da Pola, nell’Istria italiana, jugoslava e oggi croata, la porta a New York. «Ricordo l’olio caldo lasciato colare sul sasso, il pane caldo nel forno a legna, i sapori antichi di mia nonna, con lei ho scoperto la passione per gli ingredienti, la base della cucina».

Sapori di un mondo andato, ma anche momenti bui. Come quella notte del 1956 sul frontiera del Carso, tra ululati di cani, la paura dei miliziani comunisti usciti a batter il confine e papà che non arriva. «Nel 1948, quando nasco io, Pola è già jugoslava, ma nel 1956 mamma e papà decidono di scappare, di portare me e mio fratello in Italia… non si sentono liberi di insegnarci la nostra lingua, di andare in chiesa, di educarci, vogliono salvare la nostra identità. Papà ci spedisce a Trieste con la mamma, poi, quella notte, attraversa il confine». È la libertà, ma anche l’addio alla propria casa e l’inizio di due anni in un campo profughi. «C’era fila con la gavetta per il rancio, ma non ho ricordi amari. Trieste era la libertà, il campo una scuola di vita. Senza quei due anni non sarei io».

L’America nel 1958 è una stanza d’hotel, una vita di sussidi, ma anche l’inizio del sogno. «Volevo fare il medico, ma guadagnavo i primi dollari facendo dolci e insalate e mi piaceva». Nel ’71 è la volta del primo ristorante e della gavetta a fianco di uno chef italoamericano. Lì capisce che i sapori della sua gioventù non sono quelli della Little Italy. «I primi immigrati arrivati da Sicilia, Calabria e Campania non hanno ingredienti, s’arrangiano con quel che c’è. Così nasce la cucina italoamericana, una cucina legata alle origini, ma diversissima. Quando nel 1981 apro Felidia, il mio ristorante di Manhattan, inserisco nel menù piatti dell’Istria e del Friuli-Venezia Giulia. Scopro la tradizione regionale non perché sta diventando di moda, ma perché la cucino meglio. Quei piatti così diversi dagli spaghetti con le polpette dei ristoranti italoamericani di allora attirano la curiosità». È l’inizio della svolta.

«Vengo in Italia, incontro i produttori e i migliori chef, torno alle origini per arricchirmi. Da un po’ vado anche in Istria. Prima mi faceva paura. Adesso l’italianità è sempre più accettata, si parlano due lingue. Certo la differenza di cultura ancora si sente, ma in Istria l’italianità viene sempre più a galla, nei paesi si parla italiano, si cantano le vecchie canzoni, riemergono le vecchie radici, ti risenti parte di quello che sei». Nei suoi piatti Lidia trasmette lo stesso amore per le origini. «Voglio condensare gli elementi, far percepire la cultura degli ingredienti originari. La cucina italiana è tradizione, semplicità, prodotti stagionali. Per spiegarla offro una fetta di prosciutto di San Daniele, un pezzo di parmigiano e un cucchiaio d’olio. La mia capacità è insegnare l’importanza di questi ingredienti, spiegare un piatto essenziale come gli spaghetti aglio olio e peperoncino. La maggior soddisfazione è sentire uno spettatore dirmi «Lidia tu mi hai insegnato a cucinar la pasta».

0 Condivisioni

Scopri i nostri Podcast

Scopri le storie dei grandi campioni Giuliano Dalmati e le relazioni politico-culturali tra l’Italia e gli Stati rivieraschi dell’Adriatico attraverso i nostri podcast.