Pubblichiamo l’intervento dello storico Luciano Monzali, autore di diversi studi sui territori orientali italiani tra Otto e Novecento, docente di Storia delle relazioni internazionali e di Storia dei Paesi del Mediterraneo nell’Università degli Studi di Bari, svolto nel corso della cerimonia nell’Aula di Palazzo Madama.
La diaspora giuliano-dalmata nella storia dell’Italia repubblicana.
Una riflessione
Fra il 1943 e la metà degli anni Cinquanta l’Istria, il Quarnero e la Dalmazia furono abbandonati dalla gran parte dei loro abitanti italiani. I profughi e gli esuli dalmati e giuliani si dispersero per il mondo occidentale. Il nucleo più consistente si stanziò in Italia, ma molti emigrarono anche in Australia, Canada, Stati Uniti, Argentina.
Non può essere sottovalutato e sottaciuto il grave e terribile trauma vissuto dai profughi giuliano-dalmati a causa dell’esodo. Le persone espulse e cacciate dalle proprie case e dal territorio dove sono nate e vissute sperimentano non solo dolori fisici, ma anche gravi sofferenze psicologiche e spirituali, provocate dallo sradicamento subito e dal mutamento della loro vita. Con lo spostamento, con l’abbandono della patria i profughi mutano e cambiano come persone e valori sociali e si devono confrontare con le società che li accolgono, spesso non volontariamente e nelle quali la comparsa di questi estranei diffonde paura e inquietudine. Molti esuli vissero i traumi del declassamento sociale, dello sradicamento, dell’essere privi di punti di riferimento, di dovere ricostruire da zero la propria esistenza.
La gran parte dei profughi giuliani e dalmati che giunse in Italia desiderava costruirsi una nuova vita. Ma il confronto con le società regionali italiane che li accolsero a partire dal 1943 non fu facile e indolore. Il nostro Paese dopo il 1943 era stato terra di combattimento fra eserciti di occupazione stranieri, oggetto di un conflitto militare che lo aveva spaccato e lacerato per due anni mettendone in discussione perfino l’esistenza come Stato indipendente. In un’Italia uscita impoverita e sconvolta dalla guerra, dove fra il 1945 e il 1948 vasti settori della popolazione soffrivano fame e povertà e vi era il grave problema del reinserimento di tanti ex combattenti (soldati, internati e prigionieri di guerra), l’arrivo di centinaia di migliaia di persone dalla Venezia Giulia e dalla Dalmazia fu inevitabilmente problematico e difficile.
Gran parte dei giuliani e dalmati finì a vivere in campi profughi, talvolta ex campi di prigionia. Grandi erano poi le difficoltà psicologiche da superare. Giunsero in un mondo, quello delle piccole società municipali della Penisola, che non li aveva invitati o chiamati, nel quale non vi erano spazi liberi o vuoti da occupare e dove talvolta erano percepiti come intrusi. A causa della loro specifica identità di italiani di frontiera, diversa da quella di altre regioni italiane, gli istriani, fiumani e dalmati si sentirono e furono percepiti come diversi, quasi fossero stranieri, da molti italiani della Penisola, spesso indifferenti verso la tragedia dei profughi, il loro dramma, la cancellazione di una civiltà millenaria, quella degli italiani dell’Adriatico orientale.
L’esigenza di aiutarsi nel processo d’integrazione nell’Italia repubblicana diede origine all’associazionismo degli esuli giuliano-dalmati. avente soprattutto due finalità: l’organizzarsi autonomamente per aiutarsi nella difficile sfida di ricostruire da zero una vita per sé e per i propri cari in Italia e per rappresentare ed esprimere politicamente le posizioni e gli interessi dei profughi.
Nonostante tutte le difficoltà e le sofferenze, l’integrazione dei profughi giuliano-dalmati nella società italiana fu piuttosto rapida e con esiti positivi. Vari i fattori e le cause di questo successo. Va sottolineato, innanzitutto, che i profughi giuliani e dalmati avevano qualità morali e culturali che ne facilitarono l’integrazione e il successo socio-economico. Provenivano da società evolute e sofisticate, come l’Istria costiera, Fiume e le città dalmate, realtà in cui l’analfabetismo era scomparso e dove gli italiani erano parte importante delle élites culturali e economiche. Possedevano valori familiari e individuali come la capacità di lavoro, la disciplina, il senso dell’organizzazione, lo spirito d’intraprendenza, la capacità di adattamento, tutte caratteristiche tipiche di popolazioni marittime provenienti da territori di frontiera.
Altro fattore fu che, pur disponendo di mezzi limitati, lo Stato italiano s’impegnò per aiutare l’integrazione dei profughi giuliano-dalmati. Lo Stato nazionale compì la scelta di favorire la completa integrazione degli esuli nella società italiana e di non usarli come strumento per una possibile rivincita contro la Jugoslavia e per il mutamento dei confini definiti dal trattato del 1947. Direttamente o tramite l’Opera per l’Assistenza ai Profughi Giuliani e Dalmati, lo Stato italiano realizzò la costruzione di migliaia di appartamenti e case destinati ai profughi e favorì il loro inserimento nel mondo del lavoro. Questo aiuto statale non fu passivamente accettato dagli esuli ma andò a coniugarsi con la loro capacità di contare solo su stessi e di essere intraprendenti.
Il successo nell’integrazione, infine, fu favorito dal fatto che i profughi arrivarono in un’Italia certo impoverita dalla guerra, ma che nel giro di qualche anno si trasformò nel Paese del miracolo economico che offriva grandi opportunità di lavoro e d’iniziativa imprenditoriale. I profughi giuliano-dalmati ebbero facilità nell’adattarsi alla nuova società capitalistica urbanizzata e industriale di massa che si venne a sviluppare nell’Italia centro-settentrionale nel secondo dopoguerra. L’economia italiana degli anni Cinquanta e Sessanta offrì grandi opportunità di successo e di lavoro per persone ambiziose e intraprendenti, e molti istriani e dalmati ne approfittarono. In questo contesto si spiega il successo di imprenditori giuliani e dalmati come Bracco, Missoni, Luxardo, Mila Schön e tanti altri, grandi e piccoli. Nell’Italia del miracolo economico i settori nei quali fu forse più eclatante l’affermazione di persone originarie dell’Istria, Fiume e della Dalmazia furono lo sport, la musica, il cinema, la cultura. Il successo di cantanti come Sergio Endrigo, di attrici come Alida Valli e Sylva Koscina, di atleti come il velista Agostino Straulino, il pugile Nino Benvenuti e il campione di marcia Abdon Pamich, fu la manifestazione di alcuni caratteri tipici della civiltà dell’Adriatico orientale: la prestanza fisica, l’amore per lo sport, l’arte, la musica e il canto.
Pure significativo fu il contributo degli istriani, dei fiumani e dei dalmati alla vita politica dell’Italia repubblicana. Nel secondo dopoguerra i leader democristiani triestini e goriziani furono spesso esuli originari dell’Istria e della Dalmazia: ricordiamo Gianni Bartoli, Corrado Belci, Giacomo Bologna, Giovanni Tanasco e Pasquale De Simone. Espressione del mondo variegato e complesso della civiltà dell’Adriatico orientale furono anche significative personalità politiche come Leo Valiani, Paolo Barbi, Luciano De Pascalis, Ferruccio de Michieli Vitturi, Enzo Bettiza e Livio Labor.
Vi furono anche istriani e dalmati che simpatizzarono o militarono nel Partito Comunista Italiano. Paolo Sema, nato a Pirano, fu un esponente di rilievo del PCI triestino e parlamentare nazionale per vari anni. Pure di origine istriana, nativo di Muggia, era Vittorio Vidali, figura controversa, celebre combattente repubblicano nella guerra civile spagnola, leader carismatico del comunismo triestino per vari decenni, senatore del PCI fra il 1958 e il 1968. Vidali ebbe il merito politico di guidare e traghettare il comunismo triestino dalla scelta filo-jugoslava alla convinta adesione all’inserimento di Trieste nell’Italia repubblicana.
Possiamo quindi affermare che l’integrazione dei giuliano-dalmati fu un successo dell’Italia della Prima Repubblica, esperienza storica oggi da molti sottovalutata, ma in realtà fase della vita della Nazione italiana di grande progresso civile, sociale e economico. Rimase, però, in molti esuli amarezza e insoddisfazione. Da una parte, l’integrazione nella società italiana era stata possibile solo cancellando o sottacendo la propria identità di origine. Gli esuli giuliano-dalmati parlavano dialetti veneti dalle sonorità esotiche per l’italiano medio; molti avevano cognomi di origine slava, tedesca, o di altre regioni dell’ex-impero asburgico, pur essendo le loro famiglie di nazionalità italiana da generazioni. Questa italianità di frontiera dei profughi giuliano-dalmati, spesso di difficile comprensione per le società provinciali italiane, portò spesso molti profughi a celare addirittura la loro origine, lasciandosi definire vagamente “triestini”, per evitare scontri e offese alla loro sensibilità, esacerbata proprio da questa ignoranza, costretti loro malgrado a fingere di gettarsi il passato alle spalle per sopravvivere serenamente tra chi non riusciva a comprenderli. D’altra parte, nonostante il governo di Roma si fosse impegnato nell’assistenza economica ai profughi, molti di essi criticarono il carente riconoscimento pubblico delle loro sofferenze, dei sacrifici subiti per aver compiuto la scelta di difendere la propria identità italiana. Perseguitati dalla Jugoslavia comunista, si sentivano maltrattati e ignorati dall’Italia.
Tutto ciò spiega la sopravvivenza delle associazioni giuliano-dalmate anche dopo gli anni Sessanta del Novecento, quando il processo d’integrazione dei profughi in Italia si era ormai ultimato. Le associazioni rimasero vive perché incarnavano e rappresentavano almeno in parte la memoria storica di una civiltà, quella dell’italianità dell’Adriatico orientale, traumatizzata e sofferente, che era stata in gran parte spazzata via dalla guerra e dal comunismo jugoslavo e correva il pericolo di scomparire e dissolversi. Alle delusioni e allo sconforto cercarono di reagire alcuni leader dell’associazionismo della Diaspora, Lino Drabeni, Antonio Cattalini, Silvano Drago e Paolo Barbi, sposando la prospettiva europeista, nella convinzione che il processo di integrazione europea avrebbe finito per coinvolgere i popoli jugoslavi e favorito la sopravvivenza dell’italianità dell’Adriatico orientale, avvantaggiando i giuliano-dalmati e creando le condizioni per il superamento della dolorosa divisione fra esuli e italiani rimasti nella Jugoslavia comunista.
In coerenza con l’impegno europeistico dell’Italia e con la sua politica di riconciliazione nazionale con i popoli vicini e confinanti, va interpretata e applicata le legge istitutiva del Giorno del Ricordo, di cui ricorre il decimo anniversario. La celebrazione e il ricordo delle tragiche vicende degli italiani dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia, che pagarono in prima persona le conseguenze delle gravi colpe e degli errori del fascismo, deve servire a tutti gli italiani per riflettere su alcuni momenti dolorosi della storia d’Italia, spingendoli all’unità e alla solidarietà nazionale. La Giornata del Ricordo deve anche favorire una crescente e sempre più intima conoscenza reciproca e amicizia fra la Nazione italiana e i popoli dell’Adriatico orientale, croati, sloveni, montenegrini, bosniaci, albanesi e serbi, con i quali ci lega una millenaria storia comune. Per quanto mi riguarda, spero e auspico che la Federazione delle Associazioni degli Esuli Istriani Fiumani e Dalmati possa continuare a svolgere e sviluppare la propria attività, nella consapevolezza che la tradizione dell’italianità giuliano-dalmata contribuisce in maniera importante ad arricchire la cultura politica italiana stimolando la nostra attenzione verso i popoli dell’Europa adriatica, danubiana e balcanica e mantenendo viva la consapevolezza della nostra identità e del nostro destino di grande Nazione europea e mediterranea.
Luciano Monzali