di Maria Renata Sequenzia
Torniamo al mese scorso. Le commemorazioni del “Giorno del Ricordo” del 10 febbraio, si sono svolte anche quest’anno in varie città, regioni, provincie di’Italia, richiamando un pubblico raramente giovanile, se non di scolari obbligati alla partecipazione, poco più numerosi di adulti, per di più male o poco informati. Constatazione ripetuta da tutti gli esponenti del Movimento Nazionale Istria Fiume Dalmazia (tra i quali anche l’autrice del libro “foibe (s)comparse” Maria Antonietta Mazocchi, citata da Rinascita) con vari ambienti in molte città, dal nord alla Sicilia. Constatazione che ha accresciuto la comune amarezza e tra gli esuli rinnovato il mai spento dolore per tutto ciò che la data del 10 febbraio evoca oltre la incolmabile perdita collettiva e personale: la conferma che l’istituzione della legge sulla commemorazione del 10 febbraio ha trascurato l’intero quadro storico riassunto in due soli argomenti, ma anch’essi citati superficialmente: le foibe e l’esodo. Se essi sono stati restituiti alla memoria nazionale, dopo sessant’anni di oscuramento, ciò avviene in barba alla esigenza di una completa e onesta revisione di tutto ciò che al popolo italiano istriano giuliano dalmata è stato sottratto, che dovrebbe essergli riconosciuto come il bene più prezioso al pari della vita dei suoi figli sacrificati alla guerra perduta: la memoria, la conservazione di ogni suo elemento, lodevole o deprecabile che esso fosse.
Il modo con cui il 10 febbraio tuttora viene presentato manca di ogni aggancio proprio con la memoria di fondamentali particolari, a cominciare dalle cause della guerra, dai rapporti tra italiani e slavi fin dall’800, ben prima dei sempre sottolineati, da un’unica versione, “crimini” del fascismo, dalle scelte dei governi italiani in campo di alleanze dal 1882 fino all’ambiguo garbuglio di quelle fatte e disfatte dopo il 1920 fino al 1939, con la trappola dell’invitante offerta nientemeno che di un trono ad Aimone di Savoia in Croazia in sostituzione del deposto Pietro Karageorgevic col consenso e l’approvazione di una delle tante sette che si scannavano in loco tra loro. Abitudine ricomparsa dopo la morte di Tito e il conseguente fallimento della sua tentata repubblica federativa. La presentazione ufficiale governativa del significato del 10 febbraio continua a dimenticare la spiegazione di quanto quel fatto storico faccia parte dei precedenti della II guerra mondiale. Si tratta di una censura che dipende dalle iniziali scelte ideologiche in favore della lotta, filo comunista stalinista filo slava, auspicata dalla rinascita di partiti, di fatto mai scomparsi, che tuttora le rivendicano e le giustificano. Scelte ideologiche che accompagnano lo svolgersi della guerra nella Balcania fino al programmato sfascio dell’8 settembre, al rovesciamento delle alleanze. Pertanto 40 mila soldati italiani accorrono a sostenere i disorganizzati sparsi partigiani di Tito trasformati grazie ai loro rifornimenti d’armi e bagagli e ogni sorta d’aiuti in esercito “regolare”.
Richiederebbe troppo spazio l’illustrazione degli eventi successivi a tale inconcepibile tradimento e quale “fraterna” accoglienza abbiano riservato ai nuovi alleati (documentata dal Ministero degli Interni in Roma e per 50 anni secretata) tra un infoibamento e l’altro. Sarà per sempre taciuto quanto contrasta col patto tra antifascisti (specie quelli convertiti dell’ultima ora)e resistenti i liberatori del loro e nostro popolo.
Mi limito a uno dei tanti mai evidenziati, tra i fondamentali eventi successivi, perché ancora constatabile tranquillamente. Alludo al patto suggellato dalla prima liberazione, quella del tricolore italiano dal simbolo della “bianca croce” di Savoia, sostituita dal simbolo di tutti i combattenti fedeli a Stalin e a Tito, la stella rossa bordata di giallo. L’allontanamento di Tito da Stalin, dopo qualche anno provocherà altre tragedie tra i liberati e gli stessi liberatori. Ma questa è un’altra storia. Essa sembra non interessare minimamente neppure quando la bandiera rallegrata dalla stella rossa viene sbandierata con tracotanza in qualunque cerimonia di carattere patriottico italiano, specie a Trieste e nella regione Giulia, che ha vissuto le più tragiche gesta dei suoi primi sbandieratori: gli ex appartenenti a un tempo gloriosi battaglioni di Alpini passati nella nuova (ma parimenti gloriosa?) brigata Garibaldi. Quale risposta può darsi chi, vedendola affiancare il nostro (?) scialbo tricolore, si chiede se sia lo stesso per cui versarono il sangue ben diversi Alpini e combattenti? Un elemento che mette completamente sotto traccia quel popolo italiano che, il 10 febbraio 1947, pace di Parigi, venne ceduto “come volgo che nome non ha”, a chi tanto lo odiava. Quale spiegazione al divieto di rifiutare la bandiera estranea, inutilmente tentato ”ope legis” mentre sarebbe condannato (!) chi alla nazionale restituisse il suo secolare simbolo patrio? A chi questo contrasto non recherebbe ulteriore offesa? Offesa maggiore di quella di essere considerati concittadini di coloro a cui la stella rossa ha regalato la doppia cittadinanza e tutti i vantaggi dei diritti connessi nel lavoro nei concorsi nelle pensioni, mentre ad essi è stato tolto dall’esodo, persino il diritto di dichiarare su documenti ufficiali la località e lo stato d’origine? E imposto di far dimenticare anche ai loro figli quei nomi per millenni conservati e rispettati da qualunque dominazione: latina bizantina veneziana napoleonica asburgica… Ma la privazione più grande, dopo quella di qualsiasi bene materiale, è quella della imposta rinuncia alla verità storica, del legame inscindibile con tutto il popolo italiano, della memoria comune, di tradizioni di culto, di lingua, il vedere accettate e spesso premiate le tesi di volgarizzatori operanti in due botteghe apparentemente nemiche, ugualmente falsate, l’una dal ”negazionismo” (le foibe non esistono) l’altra dal giustificazionismo (le foibe colpirono solo fascisti dediti a ogni sorta di crimini: una vendetta, comprensibile e giustificabile reazione). Chi osa smentite è un nostalgico fascista complice della immorale dittatura nazifascista, non riconosce la generosità della benefica democrazia che è riuscita a liberare, oltre istriani, fiumani e dalmati circa 20 milioni di europei. Come? Bombardando fino a raderle al suolo città come Dresda, come Zara, colpendo con ogni mezzo i civili, espellendoli dalle loro patrie e privandoli delle loro identità etniche e culturali.
La mutilazione della storia italiana fa parte della resistenza a una revisione generale della storia europea al rifiuto di approfondire i suoi complessi e contradditori intrecci con gli interessi dei suoi manovratori, ancora oggi esenti dal riconoscere le proprie responsabilità di denuncie, catture, prigionie, condanne, esecuzioni di propri concittadini, motivate da ideologie e odi non solo politici, spesso da profitto personale (quante carriere avvantaggiate…) cui darebbero prove aperture di ben protetti archivi.
Il 10 febbraio poteva essere l’inizio di una purificazione della memoria di cui hanno bisogno anzitutto le giovani generazioni, per trarre dalla conoscenza onesta del passato esempio vitale per la maturazione della propria coscienza di uomini e di cittadini, come si pretende oggi, del mondo.
Ma, no. Il richiamo alla data di una pace inspiegata resterà vuota retorica, solo di inutili pagine bianche momentanea fuggevole celebrazione…