Per diversi decenni, Trieste è stata la “fiamma all’occhiello” della destra italiana, anzi di quella destra che un tempo trovava il più forte e significativo punto di riferimento nel Movimento sociale italiano. I motivi politici erano ben noti e le improvvide iniziative dei governi non facevano che alimentare un radicamento che per lungo tempo nel capoluogo giuliano si è monetizzato in un consenso elettorale spesso tenuto al margine. Almeno fino alla svolta di Fiuggi (gennaio 1995), quando il Movimento sociale si trasformò, non senza qualche rimpianto interno e la lacerante disputa tra Rauti e Fini, in Alleanza nazionale, per giungere infine ai successi elettorali nella “rossa” Muggia, con Dipiazza sindaco, e con la conquista dell’amministrazione provinciale di Trieste (1996). Da allora, quel partito, definito negli anni Cinquanta “movimento senza importanza” ha avuto ruolo rilevante nella gestione della vita pubblica triestina, in forza di quel fenomeno politico dello “sdoganamento” conseguente alla fine delle prassi ideologiche. Finito il comunismo, aveva ragione di esistere l’unico partito programmaticamente anticomunista?
Non c’è ampia letteratura sull’attività locale del Movimento sociale italiano, o meglio finora non era stato pubblicato nulla di specifico se si esclude un volume di oltre trent’anni fa su “Nazionalismo e neofascismo nella politica al confine orientale italiano 1945-1954”, curato dall’Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione ma condizionato da una lettura ideologica del fenomeno, mentre non poche tracce sono presenti in una più ampia produzione memorialistica, pubblicistica che si è fatta pure storiografica nel tentativo di ricostruire un settore della politica italiana piuttosto complesso e poco conosciuto.
Il volume di Pietro Comelli e Andrea Vezzà, “Trieste a destra. Viaggio nelle idee diventate azione lontano da Roma” (Il Murice, pagg. 427 più 32 fotografiche, euro 22,00), si propone il compito di raccontare codesta storia, dando soprattutto voce ai protagonisti politici delle varie stagioni politiche che hanno caratterizzato tanto il Msi, le sue organizzazioni collaterali e quell’ampia galassia della destra extraparlamentare, che sicuramente hanno segnato la storia della città.
Chi ha superato il crinale del mezzo secolo anagrafico ricorderà sicuramente tante cose qui raccontate, per averle vissute dall’interno, per averle contrastate su versanti opposti, o solo per averle osservate quale testimone, e che riporta a una stagione politica che è stata di impegno personale, pagato anche con arresti, denunce, processi, carcere, confino ma anche di scontro, di violenza ideologica, di aggressioni e attentati.
È un testo non esente da imperfezioni e da un mancato approfondimento su alcuni passaggi cruciali in cui invece è prevalso il punto di vista del militante che si impegna principalmente nella stesura di un diario generazionale e in cui non c’è spazio per il giudizio storico, ma che va letto senza pregiudizio.
È una storia di quella destra organicamente riconducibile al Msi e alle sue organizzazioni, come il Fronte della gioventù, il Fuan e prima ancora il Raggruppamento giovanile studenti e lavoratori e la Giovane Italia, mentre rimane sullo sfondo la più complessa, e per certi aspetti torbida, vicenda della destra extraparlamentare, quella di Ordine nuovo, di Avanguardia nazionale, di cui le cronache più giudiziarie che politiche se n’è occupata in passato a lungo. È soprattutto una lettura dall’interno del partito, che diventa per larghi tratti autobiografia collettiva, in cui i protagonisti, intervistati dagli autori, non celano un intramontabile orgoglio d’appartenenza a un’unica comunità di destino, a forte carattere identitario, dalla quale si possono ricavare diversi spunti di riflessione: innanzitutto l’assenza di una storia univoca, bensì caratterizzata da fasi storiche, gli anni ’50 e la questione di Trieste, la difesa dell’italianità nel decennio successivo, la lotta contro il Trattato di Osimo negli anni ’70 e poi contro il bilinguismo e il compromesso storico Dc-Pci, la partitocrazia della Prima repubblica fino, se vogliamo, alla Destra di governo e l’impegno parlamentare per il riconoscimento del Giorno del ricordo che sembra il punto di arrivo di un lungo arco d’impegno.
Tutti spazi politici conquistati ma anche lasciati liberi da altri partiti, a marcare un’egemonia giovanile sulla piazza almeno fino agli anni ’70. Ci sono luoghi fisici connotati, le sedi del partito e del Fronte della gioventù, e soprattutto il viale Venti settembre. E pure gli spazi culturali, da Evola ai campi Hobbit con i primi lettori delle trilogie di Tolkien, ben avanti il loro successo commerciale, quando il neofascismo declinava già in postmoderno.
Sono fasi storiche che hanno conosciuto e formato generazioni diverse di militanti che hanno poi preso strade molto diverse. La storia missina a Trieste è stata soprattutto storia di figure carismatiche, ma tutto nel segno di un movimento più ampio con forti e contrastanti tensioni interne, caratterizzate però da un tipico cameratismo e segnato pure da rotture interne anche definitive e laceranti. Interessante sarebbe indagare sugli abbandoni, le uscite di scena, il voltare pagina, come se quel tipo di militanza sia stata così impegnativa e pregnante da bruciare in breve tutte le energie disponibili. Possiamo dire di un ribellismo giovanile che ha connotazioni non molto diverse della contestazione praticata a sinistra. Pochi possono dichiarare un’esemplare continuità; anzi la discontinuità è la cifra e con essa il frammentismo, poco percepito dall’esterno, e le brusche uscite e i pochi rientri. Dentro o fuori.
A Trieste la militanza missina ha sempre manifestato una forte insofferenza per le gerarchie politiche fin dalle origini nella diatriba Michelini-Almirante, così da porsi “lontano da Roma” nella caratterizzazione di un movimento per molti aspetti sempre di frontiera. Giungo a una conclusione del tutto personale: ogniqualvolta la destra storica missina ha cercato di spostarsi al centro, magari con cooptazioni e fusioni, per intercettare i voti moderati, ha perso la sua connotazione di forza interclassista in cui, fin dalle origini, il ceto medio e un certo sottoproletariato – per usare categorie marxiste – si sono riconosciute in nome dell’identità nazionale da rivendicare e difendere qui a Trieste in modo del tutto specifico. Un percorso storico e politico che oggi conosce una forte crisi nei risultati politici e per l’esaurimento della spinta identitaria, per il venire meno di certe istanze, per il declino del fare odierno della politica e per l’esaurimento culturale della destra italiana. Sono tutti argomenti sui quali è bene discutere per capire un passato ancora prossimo.
Roberto Spazzali
“Il Piccolo” 17 giugno 2013