di PIETRO SPIRITO
Corridoio puntato verso un orizzonte conosciuto e aperto a un tempo, propaggine della città nell’Adriatico, punto focale che unisce in prospettiva terra, mare e montagne, il Molo Audace è una piattaforma della memoria e dell’immaginario. È stato costruito sul relitto di una nave, e in questa circostanza c’è qualcosa di molto significativo. Quando nel 1740 affondò in porto per un fortunale la nave della Marina asburgica San Carlo, le autorità decisero di utilizzare lo scafo per edificarci sopra un nuovo molo, che prese il nome del vascello: Molo San Carlo. Nel tempo questo approdo che oggi si infila per 246 metri nella propaggine più settentrionale del Mediterraneo è stato modificato e allungato, ma è rimasto sempre la tomba di un’unità da guerra. E in questa doppia valenza di realtà immobile e affossata, e insieme di tramplino sospeso verso l’orizzonte e un possibile futuro, risiede l’alchimia di uno dei luoghi della città dove meglio si rintracciano i nodi simbolici – ma non solo – di Trieste, quei punti difficili del passato che a volte rallentano il presente e spesso fermano il futuro.
Ed è da qui, dal Molo Audace, che inizia un viaggio nei luoghi, nelle strade e tra i palazzi della città dove si possono rintracciare grovigli e punti d’incrocio sui quali è necessario soffermarsi una volta di più, nel tentativo di superare antiche diffidenze e barriere. Ogni luogo, in sé, è neutro: siamo noi che diamo significati e valenze agli spazi in cui si consuma la nostra storia. E il Molo Audace può essere visto come un cursore da muovere lungo il grande quadrante della storia: qui approdavano e salpavano le navi commerciali e di linea che alimentavano il grande emporio, da qui si videro arrivare le salme degli arciduchi uccisi a Sarajevo, qui sbarcarono per due volte le truppe italiane segnando il doppio passaggio all’Italia.
Luogo che unisce e divide, punto d’arrivo e di partenza, il Molo Audace, con la sua rosa dei venti simile a una bussola che indica un altrove indistinto, rappresenta l’anima stessa di Trieste. «Sul quel molo – dice il poeta Claudio Grisancich – c’è tutta la precarietà del carattere triestino». Ragazzini e adolescenti, continua Grisancich, «almeno una volta alla settimana vanno a passeggiare lungo le sue banchine, cullandosi nell’immaginario di una partenza; è un luogo del desiderio, ma di un desiderio frustato, e in questo c’è qualcosa di straziante. Sappiamo di essere su una frontiera, e desideriamo andare oltre, ma abbiamo anche paura. Quando camminiamo sul molo accarezziamo sempre l’idea di una nuova possibilità, di un rinnovamento, che però il più delle volte è un rinnovamento impossibile da realizzare». Per il poeta il molo è un approdo di anime in tormento che però conserva la potenzialità di un avvio, di un rilancio: «Nessuna modernizzazione, nessuna globalizzazione – dice ancora Grisancich – riuscirà a metabolizzare completamente il rapporto irrisolto tra le varie identità di Trieste, a meno che non ci si impegni davvero; e il Molo Audace, simbolicamente, proprio per quel carico di storia che si porta dietro, può funzionare da volano per partenze definitive da certi deterrenti ideologici e culturali; forse bisognerebbe andarci più spesso».
«Il Molo Audace – interviene il critico Cristina Benussi – è come il ponte di una nave ferma, incagliata, che non ce la fa ad andare oltre. Dal mare si vede la città, anzi i luoghi simbolici della città come il municipio, la prefettura, il colle della Cattedrale, il teatro Verdi e le terrazze del Museo Revoltella. Si vede lo sfondo e da lì si è certamente visti ma non si sa da chi, non c’è scambio. Di solito un panorama complessivo sulla città si ha dall’alto, qui, invece, dal basso. Dall’alto però si ha la sensazione di dominare la città, qui invece di essere dominati. È una sensazione straniante, inquietante, come se tutti potessero osservare chi sta lì, e perciò chi sta lì si sente indifeso, inerme». Nel gioco di prospettive rovesciate, aggiunge Benussi, «si è isolati dalla vita: se si cammina in avanti la prospettiva non muta, l’Istria è sempre là davanti come la si vede dalle Rive. La prospettiva cambia solo se, arrivati in fondo, ci si gira all’indietro e allora la città ci appare più allargata. Ma non è la città di cui si intravedono, oltre la riva, indizi di traffici, negozi, vita commerciale. La sensazione è quella della fissità, dell’immobilità». Quel molo così importante nella storia di Trieste sembra così essere fuori dalla vita, «si confonde con l’acqua e l’aria, è il palcoscenico della solitudine dell’individuo, anima nuda, e della faticosa ricerca di un proprio ruolo per una città che rischia di chiudersi in sé stessa».
E come molti altri luoghi di Trieste, il Molo Audace raccoglie tensioni opposte. Qualcuno fatica a chiamarlo Audace, dal nome della nave che portò l’Italia, altri preferiscono pensarlo ancora come Molo San Carlo, in ossequio a una prosperità che non c’è più. «Ma attenzione a non confondere la politica con la cultura», afferma lo scrittore sloveno Alojz Rebula, che vede lungo le antiche banchine un’occasione di unione, citando il poeta Dragotin Kette (1976-1899), massimo esponente dell’impressionismo e del neoromanticismo sloveno, che al Molo San Carlo dedicò una delle sue poesie più belle. «Ogni volta che penso al Molo Audace – spiega Rebula – mi viene in mente Kette, che prestò servizio militare a Trieste sotto l’Austria-Ungheria e morì a Lubiana. Per Kette il molo era un luogo di dialogo, proteso com’è nel mare simbolo di un’entità cosmica che tutto unisce, come del resto è sin dall’antichità classica». Se poi il nome Audace, retaggio di quel regime che attuò processi violenti di nazionalizzazione forzata può dare ancora oggi fastidio, «questa è una lettura politica e non culturale di un luogo che sembra fatto apposta per suggerire un’idea di affratellamento».
(1 – continua)