Di quanta e quale memoria abbiamo bisogno ogni anno, nel celebrare le varie giornate del ricordo, sembra lo sappiano soprattutto i politici. Vero, sono un politico anch'io, e forse dovrei saperlo. Ma ogniqualvolta mi sforzo d'intendere il perché di tanto accanimento storico o presunto tale, in questo periodo dell'anno, non posso fare a meno di constatare, con un certo rammarico, come l'unico vero tentativo di approccio storico serio e condiviso tra Italia e Slovenia – e, in fasce, anche quello tra Italia e Croazia – sia stato e continui ad essere sistematicamente e puntualmente scaraventato nell'oblio per offrire il solito spazio e omaggiare, con le solite fanfare, una memoria esclusivamente funzionale agli aneliti politici dell'oggi. Come dire, un qualche onorevole ispiratore della giornata del ricordo è ovviamente più dotto e informato di me. Ma nella mia umile ignoranza continuo a pensare alla famosa relazione storica italo-slovena, messa, sin dal momento della sua stesura conclusiva, nel 2000, in fondo a qualche scaffale della Farnesina, e lasciata alla polvere e ai tarli perché non disturbasse l'annuale rito della retorica travestita da memoria. E assistiamo così , da entrambe le parti, a kermesse patriottarde che, sotto i vessilli di contrapposte letture storiche del secolo breve, ci offrono cause, effetti e numeri molto diversi sui drammi reali che fustigarono le genti di confine, sloveni, croati e italiani, durante e dopo la guerra. A Trieste hanno inaugurato in questi giorni la sede del Museo della Civiltà Istriana Fiumana e Dalmata. Fermi, fatemi capire! Si tratta di un museo dedicato alla civiltà multiculturale e multilingue delle nostre terre? In questo caso lo visiterò con molto interesse e apprezzamento. Ma se dovesse essere solo una vetrina esclusiva dell'italianità adriatica, andatasene con l'esodo, c'è il rischio che la parola "civiltà" possa essere intesa come contrappunto a una presunta "inciviltà" di quella parte d'Istria, Fiume e Dalmazia che non se ne è andata, e che italiana non è. E così saremmo di nuovo al punto di partenza, nel moto perpetuo del disincontro. Lo so, una memoria condivisa è difficile, forse impossibile. A ciascuno la sua memoria. Chi ha avuto un caro scaraventato in una foiba dai liberatori difficilmente percepisce la storia come colui che ha perso un caro in un rastrellamento dell'occupatore. Personalmente credo sia lecito e giusto rispettare la pietas e la percezione storica di entrambi. Ma è giusto anche capire, è giusto contestualizzare. Specie se a guidare il ricordo sono coloro che di cari infoibati, torturati o morti in un campo di concentramento, forse nemmeno ne hanno. Quando a farlo è la politica ne esce quasi sempre qualcosa di alterato, persino di disgustoso. La tanto evocata memoria rischia così di assomigliare al cattivo gusto, alla brutale politicizzazione di un dramma umano come quello vissuto in questi giorni dalla famiglia friulana Englaro. Il lunghissimo coma e la morte di Eluana hanno diviso l'Italia quasi fosse un'ideologia o una storia di contendenti antichi; guelfi e ghibellini, garibaldini e papalini, fascisti e partigiani.
Abbiamo visto gente dimostrare e gridare contro l'interruzione dell'alimentazione artificiale che teneva in vita (vegetativa) il corpo di Eluana per tanti anni, con la stessa foga di chi, a sessantacinque anni dalla fine della seconda guerra mondiale parla di massacri e ingiustizie, esodi e foibe, italiani fascisti e slavocomunisti, senza capire come si sia mossa veramente la storia che ha prodotto tante tragedie. E allora c'è chi cerca di linciare moralmente – con il bastone dell'ipocrisia – il padre di Eluana. E, riproponendo una storia strumentale, c'è chi cerca di scaricare colpe storiche, vere o presunte, solo su una parte, quella considerata, sotto, sotto, "incivile". Sono state quindi molto opportune, quest'anno, le parole del presidente Giorgio Napolitano. In entrambi i casi.
Franco Juri