È stato il Natale in cui i papà, i nonni, gli uomini tutti non osavano andare nei boschi vicini al paese per tagliare i rari piccoli abeti o, più spesso, i ginepri.
Era il Natale 1945.
Ma i “pici” bisognava accontentarli, non dovevano capire che cosa stava accadendo.
Nelle case non sarebbe stata Festa vera senza l’albero di Natale.
Anche se era pericoloso, molto pericoloso, si erano formati gruppi di uomini, giovani adulti anziani, che si inoltravano nella macchia istriana, sovrastata da radi pini maestosi; andavano a Boveda, Marassi, La Villa, alle spalle di Orsera, per cercare e tagliare gli alberelli.
Gli abeti erano pochi.
Gli uomini tornavano quasi sempre con bellissimi pungenti alberelli di ginepro ancora pieni di bacche blu scuro. Anche quelle addobbi natalizi, piccole preziose bacche, che avrebbero emanato, col passare dei giorni, il loro intenso profumo.
E incominciavano quegli indimenticabili momenti: togliere dall’ “armer de Nadal” le scatole, tante scatole, grandi piccole di latta di cartone, contenenti i gingilli, fragili, fragilissimi, avvolti in carta, quella che c’era, perché non si rompessero sfregandosi uno all’altro.
Dentro quell’armadio c’erano anche le statuine del Presepio, anche quelle fragili.
Gingilli e statuine piccoli capolavori di rara bellezza.
Qualcuna un po’ ammaccata…
Qualche asinello oramai zoppo, qualche pecorella senza orecchi, qualche pastore con il bastone spezzato, qualche casetta un po’ sbilenca.
Ma tutto conservato come il più caro dei tesori; quei pezzi di Presepe erano il Natale, ci raccontavano che stava per nascere Gesù Bambinello, anticipavano la sacralità della Festa.
Non si confondeva Gesù Bambino con Babbo Natale.
Gesù Bambino non portava doni, ma pace e serenità.
Il Natale, dappertutto, era un giorno santo: “il Giorno Santo”, il giorno in cui si stava tutti insieme fratelli cugini nonni zii santoli; il giorno da trascorrere con le persone più care; il giorno in cui a noi bambini era donato più amore di quanto ce ne davano sempre.
Era un giorno speciale, tutto dedicato agli affetti più cari e alla famiglia che, già numerosa, diventava grandissima.
I nostri parenti che arrivavano da Torre, da Montona…
E la gioia di ritrovarsi era immensa.
I preparativi …
L’ansia di fare il Presepio, bello, quasi una gara.
Si inventavano villaggi abbarbicati su colline lontane fatte di carta marroncino stropicciata, palmeti, laghetti fatti con specchietti o pezzi di stagnola in cui si abbeveravano bianche pecorelle attentamente custodite da pastori che, spesso, suonavano il flauto o guardavano lontano verso orizzonti sconosciuti.
E le donne, con cesti contenenti frutta d’ogni genere; nel mio Presepe una donna portava sulla testa una cesta traboccante di pesci luccicanti, forse perché Orsera è sul mare.
E mulini a vento con cascate, e ponti, e prati di muschio.
Il muschio era merce rara che i pici andavano a cercare, accompagnati da ragazzi più grandi.
Non era una ricerca facile, per il clima secco il muschio era poco.
Ma lo sostituivamo con gli aghi dei cipressi svettanti ovunque tra i boschi di querce, tanti alla Stanzia Granda dei de Vergottini.
Quel Presepio di casa mia, con le stradine fatte di minuscoli bianchi sassolini, talvolta mescolati a piccolissime naridole, raccolti durante l’estate con i piedi immersi nel mare tiepido e trasparente, chini per ore a cercare quelle pietruzze, fantasticando sul Presepe.
Sulle stradine passavano carri trainati da muli e asinelli recalcitranti, tirati con una corda dal padrone. Non un carro carico, sempre tutti vuoti.
Erano i contadini, i pastori, le donne che accorrevano verso la Capanna sempre con carichi pesanti sulle spalle.
E, finalmente, in mezzo a pastori pecore agnellini galline tacchini donne con anfore sulle spalle, villaggi ponti… ecco la Capanna.
Quella del mio Presepe era di ruvido legno grezzo; Maria e Giuseppe inginocchiati, divisi da un piccolo giaciglio di paglia; il bue e l’asinello un po’ dietro, pronti a scaldare col loro fiato il Bambino che sarebbe stato deposto solo alla mezzanotte della Vigilia.
Sul tetto della Capanna c’erano quattro angeli, bellissimi, vestiti di vesti rosa e azzurro pallido.
Io, picia di neanche cinque anni, li guardavo rapita, immaginando di vederli volare nel cielo sopra casa mia, cantando canti dolcissimi.
E, davanti alla Capanna, pastori contadini e donne in atto di adorazione.
Solo che il Presepe lo si preparava con qualche giorno di anticipo e, per me picia impaziente di vedere finalmente il Bambino deposto sulla paglia, i giorni non passavano mai, immaginando quegli angeli canterini e svolazzanti sul cielo sopra casa mia, forse fuggitivi, anch’essi stanchi di aspettare quel Picio che non arrivava mai.
L’albero lo addobbavano i grandi, anzi, le mamme.
I gingilli erano troppo delicati fragili e preziosi e, noi bambini, troppo impacciati nel maneggiare le palline
le trombette le pigne le caramelle le chiesette con e senza campanili, tutti coloratissimi e, tutti, facilissimi da rompere.
Ogni tanto qualcuno cadeva a terra tra la disperazione di mamme e bambini; disperazione vera per due danni: il prezioso oggetto rotto e perduto e gli innumerevoli taglienti pezzetti di vetro sottilissimo colorato a terra, pericolosissimi.
I bambini , che guardavano incantati la mamma al lavoro, venivano allontanati con cipiglio severo, tanto che si sentivano in colpa per una colpa non commessa, mentre la colpevole, con fare guardingo, tentava di togliere quei minuscoli pezzi di vetro dal pavimento. Il mio di chiare lucide assi di legno.
L’albero veniva addobbato alla Vigilia dalla mia mamma mentre nonna Anna preparava i piatti tipici di magro.
Allora, nel lontano 1945 e ancora per tanto tempo, il 24 dicembre era momento di digiuno e astinenza.
A casa mia, a mezzogiorno, era tradizione bere “el cacao” – cacao in polvere sciolto nel latte caldo con un piccolo pezzo di pane che, suntuosamente a Trieste, da esuli, era diventato panettone.
Nulla più fino a sera tarda, quando si consumava il pasto in attesa dell’arrivo del Bambino.
Il menu sempre e solo quello, da sempre e, da sempre, preparato da nonna Anna, eccellente cuoca e regina della cucina.
Le ostriche del Canal di Leme vicinissimo al paese, le tagliatelle fatte in casa condite con il corallo della granseola, el bisato frito co la versa sofigada, le orate al forno contornate dai chiffeletti di patate, e il baccalà mantecato – maiuscola pietanza – preparato con maestria e pazienza dalla nonna.
La rivedo seduta in cucina, con l’immacolata “traversa” legata alla vita, tra le ginocchia un’enorme terrina di porcellana bianca decorata con rose di color fucsia, a sbattere per ore i pezzi informi di baccalà che, lentamente, diventavano una bianca crema morbida, aggiungendo solo il saporito olio di casa nostra, tanto tanto olio.
Quella del baccalà era una cerimonia che si ripeteva ad ogni Vigilia.
Indimenticabile nonna Anna che sbatteva con il cucchiaione di legno aggiungendo una smisurata quantità di olio “quel che servi” diceva.
Nel pomeriggio, per tutta la casa, si spandeva il profumo del “pan di Spagna” dolce semplicissimo, di squisita morbidezza.
Anche quello opera della nonna che non permetteva a nessuno di avvicinarsi alla cucina.
E la tavola, preparata con attenzione quasi maniacale dalla mia mamma e dalla zia; tutto doveva essere perfetto, con la tovaglia ricamata a mano dalla mamma e i piatti di porcellana bianca delle grandi occasioni.
Quella sera anche i bambini mangiavano tardi, seduti “composti” a tavola, fino a quando ricevevano il via per alzarsi e giocare liberi da costrizioni “ma senza corer e zigar”.
A mezzanotte le luci si spegnevano, si accendevano le candeline di cera sull’albero, e nella penombra, in un’atmosfera piena di attesa, il mio papà deponeva sulla paglia il Bambin Gesù che, fino a quel momento, nessuno aveva potuto vedere.
Momento di gioia: abbracci pieni di affetto, sguardi emozionati.
A casa mia. Il Natale 1945 è stato l’ultimo vissuto festosamente, quasi a voler scacciare la paura che si percepiva, quasi palpabile.
Quello successivo, del 1946, è stato di terrore.
Il mio papà era rinchiuso nel carcere di Parenzo, imprigionato e torturato, con continue minacce di essere infoibato.
A casa si viveva nel continuo spavento che succedesse l’ineluttabile.
Le suppliche alla Santa degli Impossibili hanno miracolato il mio papà.
Dopo quel Natale felice del 1945 non c’è stato, mai più, un altro tutti uniti nella nostra casa a Orsera.
Quella terrina di porcellana bianca decorata con coloratissime rose fucsia ora è a Malvicino, sempre in vista, sempre a ricordare quei miei pochi Natali trascorsi “a casa”.
Grandi, e forse anche i pici, consapevoli che quella felicità stava per finire.
Quegli abbracci forti erano gli ultimi; molti di quei cugini e parenti non li avrebbero rivisti più; molti anziani, come le mie nonne, gli anziani subito uccisi dal crepacuore per l’esilio, ovunque “sventagliati” in Patria e per il mondo.
Ancora, dopo tanti e tanti anni, riassaporo la dolcezza del pan di Spagna e risento il suo profumo che si spande per tutta la casa.
Non è la “mia casa” dove sono nata e che, per me, è sempre mia, arrampicata sulla collina e da dove si scorge quel mare meraviglioso e si ammirano infuocati tramonti.
È la casa del Chiossarello, che, come l’ho vista, l’ho subito sentita mia, di nuovo, dopo 55 anni: casa mia.
È arrampicata su una collina, ma, dalle finestre non vedo il mio mare.
Dietro quelle sette file di colline che scorgo dalla finestra, immagino ci sia il mare di Orsera, sento l’onda lunga che si rompe sulla riva sassosa, vedo i tramonti incantevoli emozionanti.
La fantasia svanisce, non sono a Orsera, sono a Malvicino: i tramonti sono un incanto sia là che qua.
Un profondo sospiro… non sono a Orsera ma, sempre più, capisco perché amo tanto anche questa casa immersa nelle colline del Monferrato.
È la bellezza, così diversa, senza il mio mare, senza la mia gente, senza il nostro dialetto cantato; è questa bellezza che mi ha fatto pensare, come l’ho vista, che era casa mia.
Finalmente di nuovo a casa.
Anna Maria Crasti
Consigliere nazionale dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia