Il Natale in esilio dall’Istria

Guardando questa foto, un po’ sfuocata, che, sul retro, non porta alcuna data, mi chiedo di quale anno sia. Deve essere del Natale 1951. A Trieste, in Via Negrelli. Perché il 1951?

La tavola è preparata per sette persone. È il tavolo della “ camera de pranzo “ di Orsera. La tovaglia di lino bianco – la uso ancora – è quella del corredo della mamma, portata a Trieste chiusa in un cassone ricavato dalla camera da letto dei miei genitori. In acero bianco. Tanto voluta e desiderata da mamma e diventata due cassoni che contenevano le cose più care, più preziose. Tra queste anche i gingilli dell’albero di Natale. Quei fragili preziosi piccoli colorati oggetti che incantavano noi bambini.

La tavola è preparata per sette persone. Manca nonna Checca. Aveva smesso di vivere perché quella nuova vita, per lei, non meritava di essere vissuta, nonostante i figli, i nipoti, i parenti che l’adoravano. Lasciare il suo paese, per lei, voleva dire non andare a salutare mai più Jolanda “la figlia bella” morta improvvisamente a 19 anni, che si recava a trovare al cimitero anche due volte al giorno. Andar via era stato, per lei, perdere la sorella Maria, cui era legatissima, che ancora non si sapeva fosse finita nel Centro Raccolta Profughi di Mantova e che non ha mai più rivisto. Se ne è andata dopo pochi mesi dal suo arrivo in Patria.

Dietro quella tavola preparata “solo” per sette, c’è l’albero di Natale. Era, finalmente, la normalità tanto agognata. Con quell’albero mamma e papà volevano infondere in noi tre figli la sicurezza di un futuro sereno, farci credere che tutto continuava come prima. Ma io avevo dieci anni, i dieci anni del 1951, e capivo che non era così.

Papà faceva un lavoro che a Orsera non aveva mai fatto, stava lontano da casa tanti giorni alla settimana e ne sentivo la mancanza, a tutti noi mancava la sua presenza. Per quel lavoro papà ha perso la vita, dopo 15 anni. Ne aveva 48.

E quell’albero era, comunque, la continuità. Quei meravigliosi gingilli erano gli stessi di Orsera, ci ricordavano i Natali passati con tanti parenti, zii prozii cugini nipoti, dei quali in quel lontano 1951 non avevamo ancora notizie: non si sapeva in quale parte d’Italia, in quale CRP fossero finiti.

Quell’albero ci ricordava la casa abbandonata e perduta, gli amici, le vecchie amate consuetudini.

Dei preparativi del primo albero a Trieste non ho ricordi. L’unico è questa fotografia. Lo hanno fatto, di notte, mamma e papà, certamente. Per farci la sorpresa al nostro risveglio. Per noi tre figli una gioia incredibile, pensavamo fosse stato Babbo Natale a fare quel bellissimo inaspettato albero. Di Babbo Natale in Istria non ne sapevamo l’esistenza. Arrivati a Trieste, San Nicolò è diventato Babbo Natale. Ma a noi bambini andava bene lo stesso, volevamo credere, ostinatamene, che ci fosse un qualcuno che portava i doni, non troppi, con la paura che ci portasse del carbone. I giorni prima della Festa tutti buoni e ubbidienti!

Più tardi i miei genitori me lo hanno detto: avevano voluto quell’albero soprattutto per donare a me, la più grande, sicurezza e fiducia nel futuro. Sapevano della mia consapevolezza di quella situazione drammatica in cui si viveva tutti zii cugini parenti amici “sparnissadi” dappertutto. Soffrivo perché non sapevo nulla dei miei amichetti di giochi e di birichinate. Tranne uno, Mario che ho rivisto dopo più di sessant’anni, Sergio Marinella non li ho né sentiti né rivisti , né di loro ho avuto più notizie.

Sull’albero di Natale del 1951 mancano le candeline di cera, che a casa, a Orsera, c’erano. Un po’ pesanti, facevano piegare i rami più sottili dell’abete e rendevano l’atmosfera magica. A mezzanotte si spegnevano le luci, papà metteva il Bambino nella mangiatoia e, tra l’emozione dei grandi e dei fioi, accendeva le candeline. Operazione che richiedeva la più grande attenzione, si rischiava che qualche ramo prendesse fuoco. Noi bambini trattenevamo il respiro, intenti a fissare papà, temendo che qualcosa si incendiasse.

Le luci spente, la “ camera de pranzo “ illuminata dalle fiammelle tremolanti, i gingilli campane grandi e piccole campanili casette stelle palline comete colorate, leggerissimi, assumevano tante sfumature di colori.

Noi pici guardavamo incantati, i più piccoli sulle ginocchia di nonna Anna e nonna Checca.

Almeno noi, ignari che tutto stava per finire, senza sapere che i futuri alberi di Natale non sarebbero più stati illuminati da quelle fiammelle ma da nuove moderne lucine belle, tante, piene di colori, ma che non emanavano quell’intenso profumo di cera mescolato a quello dell’abete.

Rivedere questa foto è tornare indietro nel tempo, in quegli anni lontani, è capire come era fortunata la nostra famiglia: quasi tutti insieme; è ripensare ai nostri fratelli esuli che vivevano la tragedia dei CRP ma che, egualmente, cercavano di regalare il miglior Natale possibile ai loro figli; è ricordare i nostri fratelli rimasti a soffrire nei loro e nostri paesi e città e case, ma che, nel 1951, a Natale, in Chiesa, non potevano andare e soffrivano dolori e umiliazioni come quelli in Patria.

Per me è ricordare, portare al cuore, quei profumi e colori e gioia dei Natali, troppo pochi, passati nel mio piccolo paese, ma che mi bastano per provare nostalgia, tanta nostalgia per quelle rosse candeline di cera mai più accese sull’abete, simbolo di una semplice felice vita vissuta “a casa”.

Auguro a tutti un Natale sereno, in pace e di pace.

Come quelli vissuti a Orsera, da me bambina felice e inconsapevole del futuro.

Anna Maria Crasti
Consigliere nazionale dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia

 

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