di Fabio Vidali
Cenni storici e critici sul patrimonio musicale del Patriarcato di Aquileia e sui canti patriarchini nei codici di Capodistria
Da Venezia alla Dalmazia un tesoro musicale comune
L’Agenda Aquileiese (Agenda Dioecesis Sanctae Ecclesiae Aquilegiensis) fu l’ultima testimonianza dell’antico rito patriarchino, che in età carolingia si sostituì a quello antichissimo di cui erano rimaste pochissime tracce
Il particolare schema liturgico della Basilica di San Marco era seguito in altre chiese, oltre che in tutte le pubbliche cerimonie religiose ufficiali della Serenissima nelle sedi più diverse come in Istria e Dalmazia
Il rito aquileiese divergeva dal rito romano in molti aspetti e si avvicinava, invece, al rito gallicano
e a quelli delle chiese orientali (specialmente quella di Alessandria d’Egitto, da cui con ogni probabilità il cristianesimo giunse ad Aquileia)
La melodia patriarchina esprime quella popolarità di tradizione orale che non ha nulla a che vedere con la serietà e la precisione della Scola Cantorum romana
La liturgia celebrata nella Basilica di San Marco e in altre chiese del Patriarcato di Venezia viene
tutt’ora solennizzata con il canto patriarchino
Il rito patriarchino, o rito aquileiese, è un’ antica espressione liturgica della chiesa cattolica che fu utilizzato ad Aquileia, a Grado e a Venezia sino alla fi ne del XVI secolo. Già nell’antichità esistono testimonianze che dimostrano la diversità del rito aquileiese da quello romano e il suo legame con quelli orientali. “Dalle testimonianze si rivelano – scrive l’Ernetti Pellegrino – precisi infl ussi provenienti dall’Asia Minore nella liturgia aquileiese. Questo particolare rito era già da lungo tempo in uso nell’arcidiocesi di Aquileia quando, nel 568, questa chiesa si rese autonoma elevandosi a Patriarcato. Lo scisma interno che caratterizzò il VII sec., con le due sedi contrapposte di Aquileia e Grado, e la definitiva scissione del nuovo Patriarcato di Grado (717) trasmisero semplicemente l’uso del patriarchino alle due chiese sorelle. Non solo, ma lo diffusero anche alle Diocesi della Dalmazia sottomesse a Grado. A quest’epoca risale il documento liturgico più antico ed interessante che ci testimonia direttamente la realtà del rito patriarchino.
Il percorso attraverso i secoli
Il rito aquileiese in questa fase divergeva dal rito romano in molti aspetti e si avvicinava, invece, al rito gallicano e a quelli delle chiese orientali (specialmente quella di Alessandria d’Egitto, da cui con ogni probabilità il cristianesimo giunse ad Aquileia).
Nel tardo Medioevo il rito patriarchino si andò avvicinando progressivamente a quello romano. Dopo il Concilio di Trento il rito patriarchino fu rapidamente abbandonato a favore di quello romano: nella Diocesi di Trieste nel 1586, nel Patriarcato di Aquileia nel 1506. La Diocesi di Como rivendicò con insistenza il diritto di continuare ad usare il rito patriarchino, nel 1597 Clemente VIII impose di abbandonarlo. Solo nella Basilica di San Marco a Venezia, costituendo essa una Diocesi nullius retta da un proprio primicerio, si continuarono ad usare fino al 19 ottobre 1807 (quando venne incorporata nel Patriarcato di Venezia, divenendone chiesa Cattedrale) alcune piccole varianti al rito romano derivanti dal patriarchino”.
Convivenza di tradizioni e realtà diverse
Il Friuli-Venezia Giulia è una zona vitale d’Europa: al confi ne tra il mondo latino, quello germanico e quello slavo, la convivenza di tradizioni e di realtà diverse non è solo un dato del passato: è un’esperienza viva anche ai giorni nostri. “La storia del Patriarcato di Aquileia – scrive il Petrobelli – massima autorità religiosa nel Medioevo anche politica, riflette in tutte le sue fasi queste vicende, e con la sua storia si identifica. Tutto ciò vale, naturalmente, non solo per le figure che si succedettero sulla cattedra per i patriarchi che si avvicendavano nel reggere la sede, ma anche per la storia della liturgia, che di questa autorità spirituale del patriarca era manifestazione ufficiale e pubblica”.
Molto si è discusso, anche in tempi recenti, sulla sostanza e sull’autonomia di questo insieme di riti, e delle melodie che l’accompagnano, ma non si è tenuto abbastanza presente che liturgia e musica liturgica, proprio perché espressione ufficiale del potere patriarcale, facevano parte esse stesse di un più vasto e complesso sistema di appunti e di scambi, che si svolsero per più secoli e che ebbero – pur nel variare degli eventi – alcune caratteristiche costanti. “I patriarchi che si succedettero sulla cattedra di Aquileia provenivano quasi sempre da quelle potenze che si contendevano l’egemonia sul territorio friulano, e tutta una serie di personalità certamente non secondarie nella complessa storia dell’Europa medievale; a questa storia essi prendono parte attiva, proprio come titolari dell’altissima autorità derivante dall’ufficio patriarcale.” sul Patriarcato si riflette anche sulla storia della sua liturgia, e quindi sulla sua musica. Nelle fonti più antiche che di questo rito ci sono pervenute si avverte già la presenza di questo alternarsi di diverse influenze, e la fondamentale affinità con il rito diffuso nell’intera Europa e con le melodie che ad esso si accompagnano.“
Come dice uno degli studiosi più autorevoli, Mons. Giuseppe Valle, “i documenti del rito di Aquileia che tuttavia si conservano negli archivi e biblioteche sono tutti posteriori al secolo VIII.”
San Marco alle cattedrali dalmate
E’ bene sapere che la liturgia celebrata nella Basilica di San Marco e in altre chiese del Patriarcato di Venezia viene tutt’ora solennizzata con il canto patriarchino. “Già nel 1568 – riprende a scrivere l’Ernetti – spirava aria di riforma liturgico-musicale proposta dal Concilio di Trento. I tradizionalisti del canto patriarchino si opposero alla riforma musicale del Concilio e a tutte le successive variazioni e varianti che la liturgia della Curia romana subì tra il secolo XVII e XVIII.
Il particolare schema liturgico della Basilica di San Marco era seguito in altre chiese, oltre che in tutte le pubbliche cerimonie religiose ufficiali della Serenissima nelle sedi più diverse come in Istria e Dalmazia.
Si ebbero quindi forme particolari di Antifone, Graduali, Messali ed Hynni, e grande importanza assunsero alcune invocazioni come ad esempio il canto del Te Deum di ringraziamento
a Dio.” Già nel 1977 don Giuseppe Radole scriveva: “Un repertorio musicale esiste ed è conservato in numerosissimi Codici, presso enti civili ed ecclesiastici della Regione Friuli
Venezia Giulia. Tali Codici, alcuni celebri in tutto il mondo sia per il contenuto musicale che per la bellezza delle miniature e databili tra il X sec. e il XVI sec., appartengono a quel periodo in cui la vita ecclesiastica del Friuli, dopo la devastazione, rifiorisce sotto l’infl usso dei Benedettini, e per l’opera instancabile dei patriarchi aquileiesi di provenienza nordica. Del periodo anteriore rimane ben poco”. Don Radole stila il seguente elenco di Codici:
1- Modena, Archivio Capitolare
2- Cividale, Museo Archelogico Nazionale
3- Genova, Archivio Arcipretale
5- Gorizia, Biblioteca del Seminario
6- Spilimbergo, Archivio…
7- Capodistria, Archivio Capitolare
I codici della Biblioteca centrale di Capodistria
Nell’analizzare i Codici patrirchini della Biblioteca Centrale di Capodistria constatiamo che si esplicano in due forme principali: il Graduale e l’Antifonario. Scritti in notazione “quadrata” sul tetragramma, con sottoposti in caratteri gotici i relativi testi latini, variabili secondo il calendario dell’anno liturgico. I canti necessiterebbero di uno studio accurato sotto ogni punto di vista, sia melodico che estetico, con una profonda conoscenza del canto gallicano, mozarabico e romano, onde compararli con i canti gregoriani intonati nella sede di Roma e con quelli della sede di Aquileia.
A prima vista Graduali e Antifone mi sono apparsi chiari anche se i testi sottoposti in scansione sillabica sotto i “neumi” (note privitive) spesso difettano di imprecisioni scritte in un latino arcaicizzante, e che rendono la lettura incompatibile con la suddivisione delle sillabe, cioè sfasata. Per quanto riguarda l’analisi, spesso mi sono trovato di fronte ad alcune divergenze dello stesso canto in esso confrontato con quello riportato sui messali romani. Da ciò deduco che i due canti, quelli del tono aquileiese e quello del tono romano, sono diversi e mi fa pensare che la melodia patriarchina esprime quella
popolarità di tradizione orale, che non ha nulla a che vedere con la serietà e la precisione della Schola Cantorum romana. Sarebbe interessante analizzare le varie forme e i vari sistemi melodico-ritmici comparandoli con le raccolte del canto romano, trascritti in notazione moderna, come quelli armonizzati da illustri musicisti quali il Pagella, il Rostagno, il Casimiri e Giulio Bas, per rilevare le caratteristiche peculiari del canto originale (si veda l’edizione Vaticana del 1925).
Padre Pellegrino Ernetti scrive, a proposito del ritmo libero del canto gregoriano “che, tale libertà esula da qualsiasi schema metrico, a tal punto da mescolare liberamente forme binarie e ternarie ecc.., senza alcuna preoccupazione di sorta, se non l’estro del singolo trascrittore. E’ la vera libertà dei Figli di Dio, che hanno avuto da Lui anche l’arte musicale strutturata in forma tale da raggiungerle in maniera più immediata e vitale, più corrispondente anche ai singoli movimenti del nostro povero Spirito umano”.
L’armonizzazione del “cantus planus”
Il canto gregoriano, o patriarchino che si voglia dire, non sopporta di essere accompagnato da uno strumento polivoco, poiché è espressione alta dell’animo umano che si eleva a Dio.
Armonizzarlo con accordi, è compiere un atto forzato, in quanto si verrebbero a trovare in conflitto i due sistemi, quello modale e quello armonico di sostegno. Bisogna dire innanzitutto
che il canto monodico della chiesa cristiana le melodie derivano dal sistema modale, il che, vuol dire che il modo gregoriano non è la scala del sistema tonale. Il sistema modale è privo di attrazioni verso una tonica (primo grado di una scala) mentre il sistema tonale è regolato secondo concatenazioni chiamate funzioni tonali che obbediscono a una serie di concatenazioni fra loro regolate da forti attrazioni, specialmente della dominante che va alla tonica. Il sistema modale è privo di “cadenze” intese come successione di accordi tonali, è sottomesso ad altre cadenze (modali) come la nota che gira intorno alla “repercussio”.
Unire i due sistemi vorrebbe far accettare contemporaneamente accordi e note estranee ad essi per cui all’uditore apparirebbero dissonanze non giustificate. Il problema diventa ancor più difficile quando i modi gregoriani cambiano nel corso della melodia, specialmente davanti all’alterazione di si bemolle o si bequadro. Secondo alcuni teorici gli accordi usati per armonizzare il canto gregoriano non possono trovarsi che in posizioni allo stato fondamentale e di primo rivolto, escluso è l’uso dell’accordo in secondo rivolto (detto accordo di quarta e sesta). Come abbiamo detto, fra i due sistemi non esiste compatibilità perché nel sistema tonale gli accordi hanno una funzione ben precisa che determina la loro concatenazione, come le chiuse di una semifrase, di una frase o di un periodo musicale. Gli accordi si concatenano tra loro con tale naturalezza che dall’orecchio vengono accettati con altrettanta naturalezza, e costituiscono un risultato perfetto dell’acustica che esiste in natura. Questo processo nel canto modale della chiesa cristiana non viene accettato, proprio perché il “cantus planus” è nato ancora quando non si conoscevano minimamente le prime combinazioni della diafonia, e se vogliamo della polifonia, che nasce più tardi intorno al XIII sec.
Sostenere il canto gregoriano con un accompagnamento strumentale polivoco è un vero e arduo artificio. Volendo dare un accompagnamento al canto modale le armonie dovranno procedere per intervalli di seconda, di terza, di quarta e di quinta ascendente o discendente secondo l’inglobamento della nota del canto nell’accordo. Queste musiche nate in un determinato periodo storico restano tali anche nei secoli successivi e non dovrebbero essere manomesse con artifici delle moderne tecniche. L’arte di ieri non conosce tempo, anche se ascoltata oggi