di Pietro Spirito
Nel 1953 il Comitato per l'italianità di Trieste (composto da rappresentanti dei partiti del centro, della destra e dei sindacati non comunisti), presieduto dall'allora sindaco democristiano Gianni Bartoli, non solo subiva «l'influenza dell'Msi», il Movimento sociale italiano, ma aiutava le bande di piccoli criminali del Viale XX Settembre e di Cavana, fornendo aiuto in denaro a chi aveva lasciato il Territorio libero rifugiandosi a Udine e Gorizia, procurando carte d'identità false «alle persone ricercate dalla polizia», pagando «ricompense» ai giovani che avevano partecipato ai moti del novembre del 1953, gli incidenti che costarono la vita a sei triestini.
Così, il 22 novembre 1953, con un telegramma top secret spedito al War Office di Londra, i servizi segreti del British Element Trieste Force, il Betfor, mettono la parola fine all'altalena di informazioni che hanno preceduto, accompagnato e seguito uno dei capitoli più drammatici del dopoguerra a Trieste, appunto i moti per l'italianità che tra il 5 e il 6 novembre portarono la guerriglia in città in uno dei momenti più difficili per il suo futuro.
Il telegramma inviato dagli agenti segreti del Betfor getta un'ombra sulla figura di Bartoli e su quel Comitato per la difesa dell'italianità di Trieste che lo stesso Diego de Castro, nella sua fondamentale ricostruzione degli avvenimenti di quei giorni (in «La questione di Trieste»), definiva, citando informazioni dei servizi militari, «priva di qualsiasi capacità operativa». In più, il report sottolinea un aspetto già noto e di pubblico dominio allora, ma sul quale i vertici del Governo militare alleato insistettero parecchio nei loro rapporti e nelle informative che precedettero e seguirono i moti del '53, e cioè la forte influenza dell'Msi nel fomentare i disordini, fornendo uomini e armi, e il coinvolgimento diretto di bande criminali attive in città. In realtà tutta la documentazione fornita dall'intelligence alleata su quei fatti, e oggi conservata nei National Archives di Kew Gardens, vicino Londra, se da un lato fornisce particolari inediti sul contesto e gli avvenimenti stessi, dall'altro contiene inesattezze e in alcuni casi persino reticenze, a dimostrazione di quanto le autorità alleate, e in particolare il generale Winterton, fossero in imbarazzo e temessero il peggio dalle conseguenze di quelli che nei dispacci segreti vengono definiti «Trieste riots».
Adesso buona parte di quei documenti, recentemente desecretati, si possono leggere nel quarto e ultimo volume «Top Secret» della serie «Trieste e il confine orientale tra guerra e dopoguerra», di Fabio Amodeo e Mario J. Cereghino, in edicola da giovedì 20 marzo assieme al «Piccolo» a 5,90 euro in più.
Il quarto volume affronta un periodo decisivo per Trieste, gli anni tra il 1952 e il 1954, durante i quali le diplomazie di Gran Bretagna e Stati Uniti si muovono con grande determinazione per realizzare la missione impossibile di arrivare alla soluzione di una delle più drammatiche crisi della Guerra fredda europea. Già nel 1952, gli angloamericani stabiliscono di sostituire la loro burocrazia nel Gma con quella italiana, un primo, coraggioso passo verso la normalizzazione dell'area. Il 1953 si apre con la proposta della de facto solution: con una decisione unilaterale, Londra e Washington comunicano alle parti in causa, Italia e Jugoslavia, l'intenzione di voler presto ritirare le loro truppe dalla Zona A e di restituire a Roma l'amministrazione del TLT. E si arriva al 1954, l'anno della firma del memorandum di Londra (5 ottobre) che affida all'Italia la Zona A e alla Jugoslavia la Zona B, un soluzione «provvisoria» che rimarrà in vigore per più di un ventennio, fino al Trattato di Osimo del 1975.
Ai disordini del novembre 1953 è dedicato un ampio capitolo, che si apre con il dispaccio segreto che il political adviser del Gma, Philip Broad, invia a Londra il 5 novembre, al termine del primo giorno di incidenti: «Oggi – si legge nel documento – a Trieste si sono verificati dei disordini pilotati (…)». Broad racconta sommariamente come si sono svolti i fatti, ma tace l'epidosio più importante, la morte di Pietro Addobbati e Antonio Zavadil durante i duri scontri davanti alla chiesa di Sant'Antonio Nuovo. Il giorno dopo, il 6 novembre, la relazione segreta e inedita dello stesso comandante del Gma, il generale Thomas John Winterton, inviata al Comando alleato, è ambigua e molto accusatoria nei confronti del sindaco Bartoli: «Da tempo – scrive Winterton – prevedevamo lo scoppio di disordini a Trieste, in occasione delle ricorrenze del 3 e del 4 novembre, e ci preparavamo a fronteggiarli (…) Gli organizzatori sono italiani dell'estrema destra (Msi); tra costoro, quasi certamente, vi è anche il sindaco (Gianni) Bartoli, un noto provocatore (…)». Come spiega nel dispaccio, Winterton era convinto che l'obiettivo degli scontri fosse di «assumere il controllo della polizia, affidandone il comando ai funzionari italiani del Gma (Zona A). Gli italiani tentano così di forzare l'attuazione della dichiarazione dell'8 ottobre senza dover mettere in campo il loro esercito».
Da quel momento tutta l'attenzione dell'intelligence militare si concentra sull'Msi, considerato il motore primo della rivolta, «con l'aiuto di elementi criminali locali e di militanti missini provenienti dal territorio italiano», mentre «sembra che tutta l'operazione sia stata incoraggiata da ambienti ufficiali romani». Anzi, in realtà già da tempo gli angloamericani, e in particolare Broad, tengono d'occhio con preoccupazione l'Msi: il 24 ottobre Broad riferisce che «Trieste e la Zona A hanno accolto con serenità la dichiarazione dell'8 ottobre (la cessione della Zona A all'Italia, ndr)». Ma, nota ancora Broad, «l'assenza di manifestazioni di entusiasmo tra la popolazione di lingua italiana ha naturalmente preoccupato i politici locali, soprattutto il sindaco. Era noto che Bartoli puntava a organizzare una grande dimostrazione a carattere anti-sloveno e anti-indipendentista». Secondo Broad, i triestini in realtà temono che la fine del Gma «conduca a un declino della prosperità economica del territorio», e in quanto a possibili manifestazioni, nello stesso rapporto il political adviser avverte che «secondo informazioni attendibili, l'Msi intende organizzare una serie di incidenti a Trieste, nel caso non si prosegua con la messa in atto della dichiarazione dell'8 ottobre».
Dopo i gravi incidenti, il 14 novembre 1953 il rapporto ufficiale sui disordini, firmato ancora da Broad, contiene varie inesattezze. Inoltre Broad si sforza di giustificare l'operato della polizia, fino a suggerire che il sangue dei feriti all'interno della chiesa di Sant'Antonio sia un falso: il sangue, scrive il consigliere politico, «è probabile che appartenesse a qualcuno che era stato ferito all'esterno. Un giornalista britannico ha poi raccontato di aver visto alcuni individui calpestare il sangue per poi macchiare il pavimento nei pressi dell'altare maggiore, un'area alla quale nessun poliziotto si era avvicinato». Di nuovo, Broad indica nell'Msi il principale responsabile dell'organizzazione dei moti: a parte l'arrivo di elementi da altre città italiane, «secondo altri rapporti – scrive il political adviser – il figlio dell'On. Colognatti (ex segretario del Msi, presente in città negli stessi giorni) aveva ricevuto un piccolo carico d'armi da distribuire in caso di necessità». E ancora il 10 novembre risultavano presenti in città «150 membri delle squadre d'azione giunti da fuori Trieste».
Il capitolo del libro di Amodeo e Cereghino sui fatti del '53 si chiude con la citazione dell'ultimo documento trovato negli archivi inglesi, il telegramma in cui si accusa il sindaco Bartoli di sovvenzionare elementi criminali «aiutando i membri delle bande del "Viale" e di "Cavana", che sono attualmente nel mirino della Pubblica sicurezza». Informazioni in parte ancora in attesa di un riscontro storico: come ha scritto lo storico Roberto Spazzali si sa che strani figuri si erano presentati al Comitato presieduto da Bartoli per ottenere soldi in cambio di nuovi disordini, ma erano stati cacciati via e denunciati.