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Il Piccolo – 201207 – Quando il vespino fece benzina fra gli spari

di Paolo Rumiz

 

Avvenne un fatto inatteso e incredibile quella mattina del 26 giugno del '91, quando in un tanfo di cherosene i carri armati con la stella rossa sbucarono dai boschi del Carso e puntarono sferragliando sul confine con l'Italia. Lubiana aveva appena dichiarato l'indipendenza e ammainato il vessillo jugoslavo cominciando dalle frontiere.

Gli sloveni, che son gente navigata, avevano orchestrato apposta quell'ambaradan sul confine con l'Unione Europea. Volevano che tutto il mondo vedesse e parteggiasse per Davide in lotta contro Golia. E difatti decine di telecamere stavan lì, dietro la sbarra ridicolmente aperta, mentre le due parti si sparacchiavano cercando di non farsi troppo male. Soprattutto al valico di Casarossa c'era mezza Gorizia che guardava le grandi manovre col fiato sospeso.

Fu lì che a un tratto sbucò dal nulla un frontaliero in vespino. Voleva fare il pieno «dall'altra parte» e aveva in tasca il suo lasciapassare, la «propùsniza» ormai entrata nelle canzoni popolari. Quando la polizia italiana lo fermò, lui piantò un casino della malavita. Aveva sentito benissimo fischiare le pallottole ma non vedeva motivo per non passare.

Diavolo, urlava, ho i documenti in regola, non c'è ragione che proprio voi mi mandiate indietro; la benzina costa meno e se me la danno, io vado a prendermela. E difatti accadde. La polizia desistette allibita, lui passò da solo la «no man's land», sfiorò il chiosco deserto del duty free, si fermò davanti alle pompe, si accese una sigaretta e attese che l'addetto in tuta uscisse a servirlo.

Poco in là, i soldati blu della milizia territoriale slovena sparavano con lanciarazzi austriaci contro la casematte dei federali, ma – ve lo giuro – quell'uomo ebbe il suo pieno, davanti alle tv americane, tedesche e giapponesi. Pagò e tornò indietro, senza rilasciare nemmeno una dichiarazione. E tutti ci chiedemmo se fosse matto o incosciente.

Sedici anni e mezzo dopo quel giorno memorabile da cui iniziò il disastro jugoslavo, mi sono convinto che quel vespista non era affatto pazzo, ma aveva rappresentato a suo modo una precisa consapevolezza geopolitica che a noi giornalisti – troppo presi nella moviola del crollo jugoslavo in aree più truculente come Serbia e Bosnia – era del tutto estranea.

Si sa, i triestini e i loro parenti stretti del Nordest di ex appartenenza asburgica, non hanno mai preso sul serio niente. Nella Grande Guerra furono gli unici a partire per il fronte senza invocare la mamma. «E su per sta Galizia e zo per sti Carpazi – cantavano per esempio del tremendo fronte russo – vestidi de paiazi ne tocarà marciar».

Il vespista era erede di questa cultura che si burla della grande politica. Quel pieno incosciente sulla border-line aveva dimostrato più cose. Primo, la frontiera era una burla, lo era sempre stata, perché divideva l'indivisibile. Secondo, quella non era una guerra autentica ma una rappresentazione mediatica. Terzo, il disastro vero – dunque il vero confine – si spostava verso la Croazia. Quarto, il regolamento di conti riguardava Lubiana e Belgrado, e nessuno avrebbe sparato a un italiano.

Insomma, era già tutto scritto allora, e nessuno mi toglie dalla testa che già quel 26 giugno gli sloveni avessero chiaro il percorso che li avrebbe portati al 20 dicembre 2007. «Vedete?» ti dicono oggi, «ce l'abbiamo fatta. Eravamo la cenerentola di una federazione comunista e ora siamo il vestibolo della più popolosa confederazione democratica del mondo». Chapeau.

Li vedo, gli amici «dell'altra parte», con che prontezza hanno spostato il personale di controllo sulla nuova frontiera di Schengen, e con che alacrità smantellano le garritte della dogana cancellandone ogni traccia. Non è solo fierezza per una sfida vinta. È anche la coreografia simbolica della ricucitura di un ordine antico, di un territorio che per secoli non era mai stato diviso.

Dalla parte italiana s'è cominciato con buon ritardo a togliere di mezzo i ruderi del secolo breve. Tutto è stato più lento nelle istituzioni locali, vissuto alla giornata, come una fine piuttosto che come inizio. Ci si chiede: «Dove mi trasferiscono ora?». Non «Quanto tempo ci metterò fra Udine e Lubiana?». La linea d'ombra ha fatto comodo a troppi, e quei troppi oggi faticano a farne a meno.

Ecco, mi piacerebbe rivedere quel vespista folle, la notte tra il 20 e il 21. Mi piacerebbe vedere tutti quelli che hanno bucato per decenni questa frontiera contibuendo alla sua caduta con le loro storie di gente comune. Contadini del Collio, cicloturisti e maratoneti in fuga sul Carso, «topi» di trincee sull'Ermada, duri osti di «osmizza» e incalliti scommettitori di casinò.

Soprattutto, migliaia di casalinghe, quelle prese in giro dal cantautore triestino Lorenzo Pilat. «Me ricordo che iero 'ssai picio / e mia mama con siora Teresa / la partiva de prima matina / pe 'ndà in Jugo a farse la spesa». Mai come fra Trieste e Gorizia la storia di una frontiera coincide con la storia del suo superamento, contrabbando incluso. Se oggi si parla di euroregione è anche grazie a quella spontanea «diplomazia» frontaliera.

Bisognerebbe ringraziare troppa gente, il 20 dicembre. Moreno Miorelli, per esempio, che nelle valli più sperdute del Cividalese – a Topolò – ha costruito per quindici anni la kermesse di frontiera più incredibile che si possa immaginare. Lionello Rossi Kobau, ex «bersagliere» del battaglione volontari «Benito Mussolini» che nel 2005 ha voluto ritrovarsi con Marjan Grosar, il partigiano sloveno contro cui aveva combattuto sui monti dell'Isonzo. Oppure Nadija Veluscek, di Nova Gorica, che alle nostre vite divise ha dedicato commoventi documentari.

Sappiamo pochissimo di questi duecento chilometri fra Muggia e Tarvisio. Roma è troppo lontana per sapere, ma noi di qui siamo troppo vicini per capire. Troppo coinvolti nei nostri individuali destini per avere di questo terreno una nitida visione a volo d'uccello. Manca ancora uno Spielberg, un Kusturica che metta le mani su questa miniera di memorie.

Sequenze da grande film. Paolo Sema, capo dei comunisti di Pirano, che scappa a remi, di notte, verso le luci di Trieste, dopo essere stato minacciato dai «servizi» di Belgrado.

La fuga di quattro africani – i primi clandestini – trovati morti di freddo trent'anni fa in Val Rosandra e sepolti con le corone di fiori di tutto un paese. I

l castello di San Servolo, dove Tito si affaccia con Kruscev per vedere Trieste, mancata settima repubblica jugoslava.

Il generale Boroevic, che nel 1917 comanda l'offensiva e lo sfondamento su Caporetto e poi muore nel 1924 in Carinzia, solo e in miseria, senza più uno scopo – lui bosniaco – dopo la caduta dell'impero d'Austria.

Redipuglia, e attorno a Redipuglia le trincee, il fango, i bunker della guerra fredda, i sentieri dei «passeur», tutto lì in una fascia di poche centinaia di metri. Nemmeno in Normandia, nemmeno sulla Marna c'è un simile concentrato di storie.

E poi i matti di Gorizia, col muro del manicomio che dà in Jugoslavia, che per anni preferiscono scappare all'estero piuttosto che tra i «normali» in Italia, e quella frontiera scavalcata è la prova generale dello sfondamento di un'altra barriera, quella della segregazione psichiatrica.

O Lojze Bratuz, poeta e musicista sloveno, costretto nel '37 a bere olio di motore dai fascisti, che muore dopo atroce agonia.

Materiale immenso. Il Nobel Carlo Rubbia, che nasce pochi metri di qua del valico del Rafut, metri che decidono tutta la sua carriera.

La procace contessa Liduvska Hornik, che offre splendide feste agli angloamericani e così riesce a far spostare la frontiera e a far restare la villa in Italia.

La mitologica locanda «L'armistizio» di Sant Andrat, gestite da due sorelle che han fatto da custodi ai segreti di un'epoca.

O la casa a Montenars di don Checco Placereani, chino sulle sue traduzioni dall'aramaico al friulano.

 

Addio alle scritte «Drzavna meja», addio al «Niente da dichiarare». Ora cambia davvero tutto, anche nelle tremende valli dello Judrio e nel Cividalese, nido inespugnabile di bracconieri mistilingui e distillatori di frodo. Persino sulle creste nevose del Monte Canin, tra la Baba Piccola e la Baba Grande, sella di transito dei cacciatori resiani. Il confine è stato il «business» di secoli, e ora non c'è più gusto a superarlo.

 

Talvolta sogno di volare su quella linea, su e giù, rasoterra come il pennino di un ormografo o la puntina di un grammofono. Capterei canti della Grande Guerra, rombo di vecchi camion balcanici e richiamo di cervi, bisbiglio di clandestini in fuga nella notte e canti proletari sotto la stella rossa, «Altolà» di uomini armati e fisarmoniche d'osteria, pianto di profughi e rombo di cannoni, grufolar di cinghiali, raffiche di bora e fischiar di treni su binari austro-ungarici lustri di pioggia. Sentirei, forse, l'orchestra diretta da Toscanini suonare nel 1917 per le truppe in una grotta del Monte Santo.

 

Vorrei che su tutto questo non scendesse il silenzio.

 

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