Ricordo di essermi stupito, un giorno, quando sentii una persona lamentarsi dell'eccessiva quantità di barche a vela ormeggiate a Trieste. Erano per lo più brutte, diceva, non si muovevano mai e la barriera degli alberi e del sartiame impediva la libera visione del mare. Ahimè, era vero. Io ero rimasto fermo all'assioma di Joseph Conrad, secondo cui un'imbarcazione è sempre bella ed è tale sotto qualsiasi angolo di visuale. Ma lo Specchio del Mare di Conrad, naturalmente, era il canto del cigno dell'epoca della navigazione a vela, un'attività così profondamente impressa nella mente umana che ancora oggi facciamo inconsciamente riferimento a quel mondo, anche oggi che le imbarcazioni sono brutte e non vanno più a vela.
Non tutte. Chi arriva a Sistiana e si incammina lungo il molo principale vedrà forse, ormeggiata ad una boa o qualche volta affiancata al molo, una barca che si distingue tra la folla di scafi anonimi. È una passera, una di quelle barchette di sei o sette metri che si costruivano un tempo negli squeri istriani e dalmati, ma soprattutto quarnerini (spesso le passere sono definite tout court 'passere lussignane'). Barche eleganti, veloci, di aspetto internazionale eppure profondamente legate a queste coste e quasi create apposta per esse.
Sembra che fossero nate sull'isola di Lussino verso la seconda metà dell'Ottocento, ispirate alle imbarcazioni di servizio degli ultimi velieri, soprattutto inglesi, che battevano le rotte atlantiche. In principio il loro utilizzo era quello di piccole imbarcazioni da pesca, adatte alla posa delle reti da posta, delle nasse e dei parangali, ma ben presto vennero destinate anche al puro diporto, e da subito ci si accorse che potevano essere ottimi scafi da regata. I cantieri facevano a gara nel costruire le passere più belle e più veloci, e Agostino Straulino, che proprio sulle passere iniziò a regatare, ricordava come ve ne fossero a Lussino di splendide, una addirittura con le vele di seta di prima qualità portata direttamente dalla Cina da un capitano di lungo corso.
La Primavera – così si chiama la nostra passera – ci riporta in quel mondo.
È uno scafo finissimo, con la prua affilata e la poppa a cuore, un lungo bompresso rastremato e un grande pozzetto aperto. Se uno si tuffasse per ammirarla nel suo elemento vedrebbe sott'acqua una chiglia profonda e sottile e sezioni che ricordano il profilo di un calice di vino. È diversa dalle magggior parte delle passere, dalle sezioni tonde e piatte; è un vero purosangue nella sua razza. Il proprietario è un pescatore professionista, che dopo averla recuperata dall'abbandono se ne prende cura con la sobrietà ed il rispetto dovuti ad una creatura così nobile. A bordo, solo lo stretto necessario. Niente accessori inutili sulla Primavera, niente di quei giocattolini ridicoli di cui si riempiono le barche di serie!
La sua storia mi è stata raccontata da un amico, e così come l'ho ricevuta la riporto. Marino Picinich era originario di Lussino, dove insieme ai due fratelli era titolare di uno squero. Come tutti i maestri d'ascia, non conosceva solamente e sapeva usare gli attrezzi del mestiere, ma aveva appreso il patrimonio delle regole necessarie ad impostare un'imbarcazione, a calcolarne i rapporti, a modificarne sottilmente le proporzioni a seconda del risultato che si voleva raggiungere. Così nascevano anche le passere, senza disegni preliminari, come tutti gli esseri vivente nascono e si sviluppano secondo regole proprie e senza bisogno di calcoli. Le regole delle passere, come di tutte le barche, erano le regole del vento e delle onde, e Picinich, come tutti i maestri d'ascia, sapeva farsene interprete.
Quando Lussino viene reclamata da una nuova nazione Marino, uomo fatto, abbandona la sua isola portandosi dietro i preziosi quinti, le sagome delle parti principali che ogni cantiere custodiva gelosamente perché da questi, senza disegni, si creavano gli scafi. Nel dopoguerra che lo vede stabilirsi a Monfalcone, queste sagome divengono per lui il mezzo per ricreare il mondo perduto. Si procura nel Magazzino Legnami a Trieste gli stortami da cui creare corbe, madieri e ruote di prua: pezzi naturalmente curvi, dalla venatura non interrotta e quindi di massima robustezza e durevolezza – pezzi che l'occhio esperto riconosce già nella particolare curvatura o nella biforcazione di un tronco d'albero. Costruisce varie barche con maestrìa e stile inconfondibili, imbarcazioni da regata come le Star e naturalmente passere. È tuttavia così preso da quei volumi, da quelle curve e da quelle linee plasmate dall'acqua che scorre lungo lo scafo, che anche senza finire gli scafi continua a sagomare nel rovere pezzi apparentemente sconnessi, ma che ai suoi occhi rappresentano già l'imbarcazione finita.
Un giorno qualcuno, forse dubitando delle sue facoltà, gli chiede cosa diavolo stesse combinando. Lui imposta una chiglia con la ruota di prua e il dritto di poppa, secondo le regole ben note assembla le corbe, posa il fasciame e la coperta, e nasce la Primavera. La sua ultima barca, il suo canto del cigno. Così la storia mi è stata raccontata, ed è commovente pensare che sia andata proprio così, riguardando la Primavera
Piero Tassinari