di Danilo Colombo
In questi giorni m’è capitato fra le mani «Nelle arene di Nerone- Diario di galera.» Una pubblicazione, attualmente introvabile, scritta da Padre Sempliciano, al secolo Albino Gomiero, protagonista d’un processo-farsa che cercò di presentare i frati di Sant’Antonio quasi fossero degli spioni del Vaticano e d’una nazione straniera (l’ltalia!) nonché colpevoli d’un grave crimine: l’aver fornito ai nemici della Jugoslavia di Tito notizie segrete politiche, economiche e militari. Ben 111 (centoundici) notizie secondo un ritaglio d’un giornale di Fiume sull’inizio del dibattimento in cui si nomina come complici, oltre un tale Cionca, impiegato presso l’ufficio alleato per l’epurazione, il direttore dell’Arena di Pola, Corrado Belci, la cui vera colpa era, in realtà, di essersi battuto perché « Pula non fosse nasa».
A seguire passo per passo il racconto che ne fa Gomiero il primo sgarro anti-titino i frati lo compiono durante il breve periodo di occupazione jugoslava che precede, alla fine di giugno 1945, il subentro degli alleati in base all’accordo internazionale che divide l’lstria in zona A, comprendente oltre Pola, Trieste e il suo immediato circondario, e zona B che resta sotto amministrazione jugoslava. È stata travolta la resistenza dei tedeschi e dei loro fiancheggiatori repubblichini e dopo lo «Zivio!» lo «Smrt» si trasferisce dai fascisti, ai carabinieri, agli impiegati amministrativi ma più in genere a tutti quelli che vengono indicati e puniti come «‘taliani». Che siano entrate in funzione le foibe ha una dimostrazione drammatica. Un uomo piangente, il terrore dipinto sul volto, si precipita nella chiesa di Sant’Antonio, alzando le braccia segnate dalle ferite del filo spinato e racconta che gettato in foiba è riuscito durante la notte ad uscirne. Chiede asilo. Caso questo che me ne richiama un altro simile il cui protagonista fu una giovane conoscenza liceale di nome Benito ma del quale non ricordo il cognome.
I frati al poveretto l’asilo non lo negano. Ma non risulta fra i rifugiati quando il 23 maggio ‘45 un centinaio di partigiani comandati da tale Picunich, un bieco figuro che ha parecchi delitti sulla coscienza, fa irruzione in chiesa e comincia una perquisizione che dura cinque ore. Cercano, in realtà, dove sono nascosti il federale Bilucaglia (che non c’e’) e suo cognato Mattioli che, invece, si trova ben occultato in soffitta e sfugge alla ricerca. Si respira, per lo scampato pericolo, ma quanto si viene a sapere da lì a poco è agghiacciante. Nell’orfanotrofio dove i frati hanno dato alloggio a varie famiglie dopo il trasferimento degli orfani a Rovigno sono stati arrestati la moglie e i figli del ricercato.
Saputolo, Mattioli si presenta al comando jugoslavo, ottiene la liberazione dei famigliari e imbarcato, dopo la condanna a due anni di prigionia, su una nave, che salta su una mina, riesce a salvarsi a nuoto, aiutando anche uno dei militari-carcerieri a guadagnare la riva. L’Ozna ha ormai gli antoniani nel mirino. I loro contatti e viaggi nella zona B vengono sorvegliati e schedati anche durante il periodo dell’amministrazione alleata a Pola e si faranno ancora più intensi ed evidenti dopo il trattato di pace. S’è ridotto il personale dei conventi francescani come quelli di Rovigno e Pisino e c’è, in particolare bisogno d’una presenza sacerdotale a Dignano, Gallesano, Fasana per messe, funerali, battesimi, assistenza agli infermi e viatico ai moribondi.
Ai posti di blocco le perquisizioni si fanno sempre più lunghe. In una occasione Gomiero sente uno sparo e il sibilo d’un proiettile che passa a breve distanza. In un’altra viene costretto a spogliarsi e corre il rischio che i drusi gli portino via la bicicletta, il messale e i paramenti sacri. Intanto (e qui come in un articolo precedente attingo informazioni dalla documentatissima «storia della radiofonia» dell’ing. Guido Candussi) sono cominciate le trasmissioni di Radio Venezia Giulia. Una emittente clandestina, che ha l’avallo, fra gli altri di De Gasperi e di Nenni, e che si prefigge il compito di tenere informati gli istriani sotto amministrazione jugoslava su quanto si sta facendo per garantire l’italianità del confine orientale e sulle nefandezze e sui crimini dei titini.
Diretta dallo scrittore Pier Antonio Quarantotti Gambini è subito considerata da Tito altamente nociva all’immagine e alla credibilità jugoslava. Vien chiesto agli alleati anglo-americani di farla, tacere, tanto più che l’Italia è ancora in regime di armistizio e non può permettersi questo genere di propaganda. Sono gli alleati a individuare radiogoniometricamente che l’antenna radiante è ubicata al Lido di Venezia e a imporre all’Italia di cessare immediatamente le trasmissioni che, però, da lì a poco verranno riprese. Si annuncia che è stato arrestato un informatore di Radio Venezia Giulia (realtà o fumo negli occhi? perché non se ne cita il nome?) e che è stato tolto di mezzo anche quello di Gorizia. Restava operante, e lo fu anche dopo il trattato di pace, il centro di informazioni di Trieste, diretto da Oscar Millo che, in un vecchio palazzo del Borgo Giuseppino disponeva di una radiotrasmittente telegrafica, operatore tale Cernetich, un giovane giornalista sportivo, che riceveva i messaggi, li trasformava in codice e li inviava a Venezia dove venivano decrittati.
I principali informatori erano: il prof. Redento Romano di Portole, il triestino Stelio Rosolini, il buiese Bruno Zoppolato e il montonese Mons. Alfredo Bottizer, ex insegnante di lettere al Liceo Scientifico di Pisino che «nella primavera del 1946 – e qui cito testualmente dalla pubblicazione dell’ing. Guido Candussi, nel corso di un funerale da lui officiato, venne avvicinato da poliziotti jugoslavi armati che lo invitarono a seguirli al loro comando, ma chiese loro di poter accompagnare il defunto in cimitero e così poté evitare una fine sicura, scappando e chiedendo ai militari alleati di uno dei tanti autocarri che percorrevano la strada da Pola a Trieste, di poter raggiungere con loro quest’ultima città».
Potersi servire di un sacerdote come informatore faceva comodo all’emittente clandestina dato un certo rispetto per il suo abito e per le molteplici occasioni di essere a contatto con la gente. Considerazione che deve essere stata alla base d’un primo contatto con Padre Germano che, per quanto riguardava notizie dalla zona jugoslava, si dichiarò genericamente disponibile. Sennonché al momento dell’attuazione del piano, Padre Germano, al secolo Mario Diana, non era più disponibile essendo stato trasferito in un convento del Veneto, e bisognò affidarsi ad un altro frate, Padre Sempliciano. Gli chiedono una collaborazione (e qui cito testualmente il racconto di Gomiero) «raccoglIere e trasmettere notizie su Pola e su l’Istria per mezzo di una radio portatile quando il territorio passerà sotto la Jugoslavia. Presento subito le mie ragioni per un rifiuto; essi si fanno forti del fatto che, essendo stato cappellano militare della Julia e non ancora in possesso di un esonero definitivo: non posso rifiutare questo servizio alla patria (!)».
«Non ci sarà nessun pericolo, mi dicono, non è altro che un normale servizio giornalistico per far conoscere all’Italia la situazione dell’Istria sotto la dominazione jugoslava e far sapere come viene trattata la comunità italiana sul luogo». «Se ne vanno, sicuri di aver trovato un collaboratore. Non passa una settimana e arriva un signore con una valigetta contenete la radio. Fatico ad accettarla. Dopo alcune semplici spiegazioni sul funzionamento, si ritira raccomandandomi il segreto più assoluto anche con gli altri frati. Subito nascondo la radio nella soffitta del teatro parrocchiale. Ma quell ‘aggeggio mi pesava sulla coscienza. Agli ultimi di agosto parlo con Padre Serafino e lo informo. Chiedo e ottengo il permesso di recarmi subito a Trieste per restituire la valigia a una persona di mia conoscenza, vincolata con il servizio segreto italiano. Ritorno poi più sereno a Pola. Ma alcuni giorni prima del 15 settembre ritorna in convento la valigia con l’obbligo di essere tenuta: va a finire di nuovo nella soffitta del teatro parrocchiale e li rimane.
Quando Pola passa sotto l’amministrazione jugoslava, ci accorgiamo sempre più di essere controllati, spiati, sospettati». In chiesa capita spesso di vedere due persone dell’Azione Cattolica della parrocchia, spariti da tempo dalla circolazione, che girano per ogni dove. E c’è un altro individuo che s’infila dappertutto e che richiestogli che cosa stia facendo si scusa affermando che abita vicino alla chiesa e che sta cercando il suo gatto che scappa continuamente. Sarà, durante il processo, l’uomo del gatto a portare la radio trovata nella soffitta del teatrino ben nascosta da quadri di santi.
E, qui, riprendiamo il racconto del frate: «Mi servo della radio per dare qualche informazione pessimistica, ma reale, della nostra situazione e della città. Ai primi di novembre l’Ozna comincia sistematicamente la perquisizione in molte case. lo mi affretto a trasmettere via radio questa notizia e allo stesso tempo informo che sono costretto ad interrompere le trasmissioni e distruggere tutto. Ma la decisione è presa troppo tardi». È come se un cappio si stringesse sempre più rapidamente attorno alla chiesa, finché l’Ozna, con un gran battage pubblicitario non proclama di aver prove che gli antoniani sono risultati spioni del Vaticano in combutta con i servizi segreti italiani. Oltre a Padre Sempliciano sono colpevoli del «crimine contro il popolo jugoslavo» Padre Serafino Giuseppe Mattiello parroco e superiore di Sant’Antonio; Fra Ambrogio Bellato del convento di Rovigno, Padre Bernardo Ernesto Benincà, anch’egli del convento di Rovigno e Padre Atanasio Cociancich del convento di Pisino.
Il giorno dell’arresto la chiesa di Sant’Antonio è stata profanata e il tabernacolo manomesso. Vasi sacri insozzati. Paramenti gettati ovunque. In un processo che sul piano del diritto è poco più di una farsa e nel quale vengono coinvolti altri sacerdoti e civili, Gomiero il «capobanda» viene condannato alla pena più dura: 16 anni di reclusione. E comincia per i frati la vita da galeotti. Insulti, minacce, sberleffi, sputi, ore e ore di lavoro sfiancante, brodaglie per cibo, umiliazioni d’ogni genere, una «gibla» maleodorante per i bisogni del corpo, disumanità d’ogni tipo condivise con altri sacerdoti in massima parte croati e sloveni e con civili a cui si rinfaccia. di aver indossato una divisa.
Da Lepoglava, a Stara Gradiska, a Lubiana. Ma se la carne ha i suoi spasimi, i momenti di sconforto, lo spirito è forte. Per dir messa i frati hanno messo assieme un Messalino dove le varie parti del servizio divino sono state scritte su foglietti di carta igienica. Pezzetti di pane diventano l’ostia del Dio che s’incarna. Infusioni d’uva passa forniscono il vino del sangue del Redentore. Per un certo tempo sembra che i condannati siano stati cancellati da ogni rapporto col mondo e che Gomiero abbia fatto una brutta fine. Tanto che i suoi famigliari fanno affiggere sulla chiesa e sui muri di Scandolara, sua città natale, un epitaffio funebre. L’ 8 ottobre 1949 un treno che parte da Lubiana è quello della libertà e del ritorno in Italia.
Gomiero, come altri frati antoniani verrà destinato a diventare missionario in America Latina, ma sarà ancora una volta a Scandolara per i 50 anni del suo sacerdozio prima di tornare in Guatemala. Da tempo è gravemente ammalato e ognuno di noi che abbiamo avuto nei frati di Sant’Antonio degli amici degli educatori deve unirsi nella preghiera. Magari con le parole d’una sua poesia:
Gesù, al toccò immortale
delle tue mani
il mio cuore si smarrisce
per la gioia
di aver risposto il mio sì
ed effonde parole indicibili.
Su queste mie piccolissime mani
piovono i tuoi doni infiniti.