Siamo a 150 anni esatti dalla nascita di Gabriele D’Annunzio (12 marzo 1863), l’occasione è senza dubbio alquanto indiretta, ma speriamo che valga a riportare le luci sul Vate, meglio di quanto non sia avvenuto l’anno scorso per il centenario dalla morte del suo grande fratello, non si sa se maggiore o minore, Giovanni Pascoli. Per parte mia, ho ripubblicato un vecchio saggio, D’Annunzio in prosa (Mursia) che già nel titolo esponeva una rivendicazione, quella di considerare in lui l’autore di opere in prosa, romanzi, racconti, drammi teatrali, non inferiore al poeta lirico, che invece a lungo ci si è ostinati a preferire, attribuendo le sue incursioni in campo prosastico come dovute a intenti esteriori di successo commerciale e di fama. Già allora mi valevo di una intuizione decisiva di un convinto dannunziano quale Mario Marcazzan, che aveva dribblato la disputa sostenendo che nel Pescarese c’era prima di tutto una sorta di emissione originaria, potremmo dire un big bang, un flusso di energia non ancora distinto per un verso o per l’altro, allo stesso modo che il feto per parecchi mesi non sa bene se puntare sul maschile o sul femminile. Formula perfetta, eh e pone sul lo stesso piano le decisioni successive.
D’Annunzio è come un regista che, seduto al tavolo dei comandi, decide di volta in volta se quel suo flusso iniziale debba prendere le vie della poesia o della narrazione. Con una conseguenza immediata di ibridazione reciproca dei due generi, in lui la poesia è sempre prosastica e tende ad allungarsi nella misura del poemetto. Un valido studioso dei nostri giorni, Paolo Valesio, ha avuto il coraggio di dire che a questo modo D’Annunzio raggiunge il maggiore poeta anglosassone del Novecento, Ezra Pound, ovvero ci dà pure lui una serie inesausta di Cantos. Si noti che qualcosa del genere non si può ripetere per alcuno dei nostri maggiori poeti del Novecento, Montale, Ungaretti, Sanguine- ti non ce la fanno, a inseguire su questa strada il Vate, restano relegati in misure brevi e di corto respiro. Naturalmente, si dà pure il reciproco, ovvero le prose di romanzi e drammi a loro volta sono percorse da un acceso fervore lirico. Ma c’è di più, e già qui troviamo una ragione di attualità del nostro autore, gli resta sempre aperta la via del rientro in quella sua capacità primaria. D’Annunzio non ha bisogno della predicazione di Marin etti per convincersi, a un certo punto, che la fatica di costruire romanzi maestosi e ampollosi è vana, e quindi è pronto a rituffarsi in quella sua corrente di base.
Questo avviene, come noto, quando, costretto alla cecità per un infortunio capitatogli in uno dei voli temerari con cui partecipa alla Grande Guerra, stende il Notturno in condizioni eccezionali, facendosi scorrere tra le dita delle strisce di carta ritagliate dalla figlia, e scrivendo quindi lunghe sfilze di parole su un’unica dimensione. Col che anticipa le attuali modalità della scrittura elettronica, dei messaggi che, dovendo varcare le forche caudine della rete, si devono fare brevi. L’avvento degli ebook condanna i mastodonti prosastici stesi da Proust e Pirandello. Ebbene, il Vate in qualche modo aveva presagito un tale passaggio stretto, e dunque le sue composizioni del secondo decennio forniscono un modello efficace pure ai nostri giorni.
Ma c’è ben di più, a confermare una ritrovata attualità di D’Annunzio, egli ha introdotto nella letteratura italiana l’obbligo di affrontare l’eros, ovvero quello che Freud, più anziano di lui solo per pochi anni (1856), definiva pure con altri termini: libido, Inconscio, Es, e soprattutto principio del piacere, e proprio con quest’ultima parola si intitolava il primo romanzo di successo del Nostro, Il Piacere appunto, del 1889. Nei suoi confronti la critica ha compiuto il peggiore degli errori possibili, non di valutare i testi, ma di andare a vedere che cosa ci stava dietro, e inveendo così contro l’uomo rotto a tutte le avventure sessuali, pronto a mutare donne a ogni passo. Ma sulla pagina D’Annunzio ha testimoniato che l’eros è la fonte primaria di spirito innovativo, chi lo sacrifica cade nella nevrosi.
A questo modo egli si è posto come il grande apostolo di una sessualità più libera ed aperta. Una società che a decenni di distanza, faticosamente, ha conquistato il diritto al divorzio, e consente oggi alle coppie, quale ne sia l’estrazione di classe, ad andare a convivere senza l’assillo di regolarizzare l’unione col matrimonio, dovrebbe essere grata, quasi erigere un monumento a questo campione intrepido, che certo esagerava, ma è diritto-dovere di ogni sperimentatore essere eccessivo, per convincere i refrattari a seguirlo, seppure da lontano.
D’altronde, non è neppure vero che in questa sua concessione alla libido, magari pronta a scadere in libidine, il Vate fosse cinico ed egoista, in fondo concedeva alle sue partner di compor-tarsi allo stesso modo, riconosceva un pari diritto a una sessualità aperta pure alle donne, contro il costume bigotto dei suoi tempi. Infine, c’è anche il capitolo del D’Annunzio uomo di guerra e di iniziative con valenza politica.
Questo è senza dubbio un terreno scabroso, in cui l’opinione, particolarmente di sinistra, è stata pronta alla condanna, ma si dovrebbe riconoscere a lui, come del resto indistintamente a tutti i cultori delle avanguardie storiche, un sicuro impulso antiborghese, quello stesso che, nelle trincee della Grande Guerra, gli faceva scoprire l’umile realtà del fante, proveniente dal quarto stato, e riconoscere in lui il vero motore della storia, ponendosi al suo fianco come, nell’epopea giapponese, facevano i samurai a vantaggio dei contadini e contro la prepotenza dei feudatari.
Si giunge così all’impresa fiumana, certo colma di ambiguità e di pericoli, ma sorretta da un indubbio spirito antiborghese, bisogna stare molto attenti a non giudicare quegli anni coi logori parametri di un liberalismo, magari indulgente proprio nei confronti degli enormi torti della classe borghese ormai avviata al crollo del 1929, e del tutto incapace di dare pane e sopportabili condizioni di vita alla classe proletaria. In fondo, lo stesso Lenin fu attratto da quanto succedeva a Fiume e vi mandò un suo osservatore. Due giovani intellettuali inglesi, i fratelli Sacheverell, lasciarono nei loro diari una frase significativa: visto che abbiamo perso la Rivoluzione di ottobre, non lasciamoci scappare quella di Fiume. Una eccellente studiosa di queste cose come Claudia Salaris ha steso di recente un saggio illuminante intitolando appunto i giorni di Fiume Alla festa della rivoluzione, visto che tutti coloro che allora aspiravano a un deciso mutamento di strutture e costumi si sentirono attratti a quel fuoco, in cui, osserva sempre la Salaris, si può scorgere un deciso anticipo dello stato animo emerso nel magico ’68.
Insomma, avviso ai naviganti, ci vuole molto discernimento, per distinguere nell’opera dannunziana il bene dal male, ciò che è morto e ciò che invece potrebbe ancora essere con noi.
Renato Barilli
“L’Unità” 13 marzo 2013