Ieri se n’è andata Licia Cossetto.
Un messaggio me l’ha detto. Dentro c’era scritto solo: “Ciao Max, ho saputo, ti abbraccio.”
Ho letto il nome del mittente e subito il pensiero è andato lì, da lei. L’ho chiamata, sperando di risentire quella sua voce dolce, da bimba, lenta e scandita quando risponde al telefono.
Suonava libero, ogni rintocco gelava il sangue.
Poi ho acceso il computer e dai primi lanci d’agenzia ho capito che quella sua voce dolce, da bimba, non l’avrei più sentita.
Licia se n’è andata in viaggio, mentre tornava a Trieste, quel pezzettino italiano della sua terra abbandonata settant’anni fa. Tornava per celebrare l’anniversario, il settantesimo, della morte della sorella Norma, martire e simbolo della tragedia degli italiani d’Istria.
Settant’anni giusti il tempo ha impiegato per riunire le due sorelle.
Abbiamo festeggiato insieme, quest’estate a casa mia in giardino, il suo novantesimo compleanno. Era felice quel giorno, serena seppur affaticata. Alcuni amici esuli come lei, una torta e del vino istriano. Mi prendeva la mano, o il braccio, e si stringeva forte, guardandomi con occhi colmi d’affetto.
Era molto sola, Licia, come credo tutte le persone che hanno sacrificato la vita per una causa. Sola in mezzo a tanti. In pubblico, grandi riconoscimenti e attestati di stima. Nel privato delle mura della propria casa, la rassegnazione del sapere che gran parte delle persone che amava quel viaggio, che lei ha cominciato ieri, l’avevano intrapreso molto, molto tempo fa.
Mi chiedeva di passarla a trovare, anche solo per un caffè, o un tè, e due chiacchiere. Mi parlava dei suoi nipoti e della figlia adorata, Norma. Della casa a picco sulla scogliera, a Peschici, e della politica. Lei, che nella vita conobbe personalmente generazioni intere di uomini di Stato, non cercava altro, dalle istituzioni, che il giusto riconoscimento delle sofferenze di un popolo. Cercava verità, non riscatto oppure una qualche forma di compensazione, o risarcimento. È successo e io ne sono stata testimone. E voi dovete credermi. Questo chiedeva Licia, null’altro.
Lei, sconfitta e dimenticata dalla storia, mi ha insegnato che la vittoria è sterile, che dalle vittorie non s’impara nulla. Ci si crede forti, migliori degli altri, invincibili. E quando infine si cade, perché prima o poi tutti si cade, ci si fa molto male. La sconfitta, invece, è fertile perché insegna a vivere. Ci si chiede il perché di quel che è stato, cosa non va in noi, e si migliora. Le vittorie non insegnano nulla. Soltanto a essere superbi, sicuri di noi, a crederci stupidamente infallibili.
Con lei se n’è andato un pezzo d’Italia. Un pezzo buono e sano. E chi resta, che ne tramandi il ricordo.
Massimiliano Comparin
Massimiliano Comparin è nato a Varese nel 1973.
Giornalista e scrittore, ha ambientato sulle Foibe il suo recente giallo “I cento veli”