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Il rifiuto dei confini: intervista a Diego Zandel (Voce del Popolo 22nov12)

Il caso vuole che parliamo con Diego Zandel di “Massacro per un presidente”, edito da EDIT/Il Ramo d’Oro Editore, che è stato il suo romanzo di esordio come scrittore nel lontano 1981. Ora, lo stesso, si presenta con una nuova veste, rivisto e corretto in alcune parti e con una postfazione di Giancarlo De Cataldo, noto scrittore, drammaturgo nonché Giudice di Corte d’Assise a Roma. L’immagine di copertina è uno scatto di uno dei maestri della fotografia italiana, Uliano Lucas, e testimonia efficacemente le tensioni ideologiche e sociali di quegli anni.

 

Come è nato il romanzo, probabilmente il primo, che ha come tema il terrorismo italiano?


“Massacro per un presidente” non è proprio il primo romanzo, ma uno dei primi sicuramente in Italia a parlare del terrorismo italiano. Giancarlo De Cataldo, nella sua illuminante postfazione, a riguardo, fa un quadro molto esatto, non solo per quanto riguarda la narrativa ma anche il cinema. Quanto alla genesi di questo romanzo si deve ad almeno tre motivi. Il primo è l’atmosfera in cui si viveva all’epoca, parlo alla fine degli anni Settanta, tra manifestazioni, attentati, stragi, scioperi, sequestri di persona, il rapimento di Aldo Moro con la strage della scorta e altri tragici episodi a cadenza quotidiana. Erano i cosiddetti anni di piombo.

 

Come non esserne influenzati?


Dieci anni prima, cioè alla fine degli anni Sessanta, io poi ero abbastanza coinvolto in quello che fu il famoso Sessantotto: frequentavo gli anarchici e, per un certo tempo, sono stato redattore del settimanale della Federazione Anarchica Italiana «Umanità Nova», movimento dal quale più tardi ho preso le distanze per entrare nel Partito Socialista Italiano, che all’utopia anarchica di un mondo libero e solidale alla portata di una, ahimè illusoria!, volontà di tutti come predicava Errico Malatesta, sostituiva una pratica politica più concreta: quella di raggiungere il socialismo attraverso il principio, inteso quale valore permanente, della democrazia politica. Questa presa di distanza dall’estremismo mi permetteva di vedere con più obiettività la situazione e quindi gestire meglio le emozioni della rivolta che tuttavia restavano vive in me, di fronte agli aspetti più turpi della cronaca, dalla quale emergeva un intreccio di connivenze tra l’estrema destra italiana e alcuni esponenti delle istituzioni italiane, allocati principalmente nella P2, con la complicità di una parte dei servizi segreti, parte passata alla storia come “servizi deviati”.

L’idea del romanzo nacque da qui. Ho poi immaginato un colonnello dei servizi segreti, Nereo Dolcich, profugo istriano, fedele servitore delle istituzioni, che sospetta con orrore la possibilità di una simile presenza di traditori del dettato costituzionale nei gangli dello Stato. Ed ho immaginato un anarchico idealista, Raul Radossi, a sua volta profugo istriano, che a sua volta sospetta la presenza, tra le formazioni di cui fa parte, di infiltrati al servizio di quegli stessi servizi deviati che preoccupano Dolcich. E li faccio alleati: pur così distanti ideologicamente tra loro, a unirli sarà il mondo dei profughi istriani, fiumani e dalmati dal quale entrambi provengono, entrambi abitanti del Villaggio Giuliano-Dalmata di Roma, entrambi educati a quei valori dell’onestà personale che ho visto sempre caratterizzare i nostri profughi. Il terzo elemento, che unisce tutto questo, è l’incontro con Valerio Fantinel, allora redattore della narrativa italiana della Mondadori, che, in accordo con il responsabile della stessa, Alcide Paolini, accettò la scommessa di farmi scrivere il romanzo sulla base del soggetto che gli avevo presentato. Dopo la lettura delle prime 80 cartelle, il romanzo piacque e mi dissero di andare avanti. Io, che allora lavoravo alla SIP, oggi Telecom Italia, mi presi venti giorni di congedo non retribuito e lo finii. Nel giugno del 1981 uscì in libreria.

 

Molte volte, in passato, si è parlato dell’esistenza di un “Grande Vecchio” teso a manovrare forme eversive pur di destabilizzare le istituzioni democratiche italiane. Una lunga scia di sangue ha attraversato la storia del Belpaese nell’immediato dopoguerra: dall’eccidio di Portella della Ginestra del 1° maggio del 1947 e che portò all’uccisione di 62 lavoratori, al ferimento di oltre 3000, passando dallo stragismo alla “strategia della tensione” (stragi e tentativi di colpo di Stato) che dal 1969 al 1984 hanno insanguinato l’Italia, lasciando sul campo 150 morti e oltre 600 feriti: piazza Fontana a Milano (12 dicembre 1969), stazione di Gioia Tauro (22 luglio 1970), Peteano di Sagrado (31 maggio 1972), Questura di Milano (17 maggio 1973), piazza della Loggia a Brescia (28 maggio 1974), treno Italicus (4 agosto 1974), stazione di Bologna (2 agosto 1980), treno Rapido 904 (23 dicembre 1984). Sessant’annidi trame e delitti senza colpevoli. Anche nel tuo romanzo si fa cenno esplicitamente ad un terrorismo che ha diverse maschere: sia essa politica o della criminalità organizzata. Dietro ad esse, però, c’è un’unica regia: centri di potere che sono sempre rimasti impuniti. Quanto di tutto ciò ha contribuito anche emotivamente alla stesura del romanzo in cui si respira la temperia dei cosiddetti “anni di piombo”?


Su questa ipotesi si regge tutto il mio romanzo. Ma credo, a questo punto, che il Grande Vecchio sia una metafora di quei poteri che nel mondo, allora diviso tra quello occidentale-capitalistico e quello sovietico-comunista,in Italia facevano capo alla CIA. Poteri, come si è visto, che agivano sotto traccia, con organizzazioni di riferimento nei paesi più a rischio di cambio di campo. Oltre all’Italia, dove era pronta a intervenire Gladio qualora il PCI avesse vinto democraticamente le elezioni, c’erano gli esempi della Grecia, dove nel 1967 c’era stato il colpo di stato dei colonnelli – e questo solo perché, nel delirio anticomunista della Cia, in seguito alla vittoria delle elezioni di un democratico come il vecchio Yorgos Papandreu, temevano una sua apertura a sinistra – e il colpo di stato di Pinochet in Cile che avrebbe rovesciato il legittimo governo socialista di Salvador Allende arrivato al potere con regolari elezioni.

L’assurdo consisteva nel fatto che si voleva difendere la democrazia, offendendo i postulati della stessa. In Italia lo si è fatto con quei crimini che tu hai ricordato. Oggi forse non si arriva a tanto: ci pensa la grande finanza internazionale, con i suoi giochetti, a mettere in ginocchio un paese se questo mette in discussione la logica feroce dei cosiddetti mercati. Ormai sono loro la grande minaccia, il nemico da combattere. Lo si è visto il giorno dopo la vittoria di Barack Obama, che si muove nella direzione di un mondo più giusto, quando le Borse, procedendo al ribasso hanno mandato i loro segnali di avvertimento.

Il teatro della tragedia è Roma, culla del potere politico e palcoscenico in cui scorre la trama del tuo libro. Senza nulla togliere al valore narrativo del romanzo, mi è parsa originale la scelta di ambientare la storia in uno dei luoghi forse meno conosciuti di Roma anche se simbolicamente forti come il Villaggio Giuliano-Dalmata. La conoscenza dei due personaggi chiave: Roul Radossi, un giovane di origine fiumana e il colonnello dei servizi segreti, Nereo Dolcich, che lui conosce fin da bambino per essere anch’egli un profugo giuliano del Villaggio, rileva una marcata accentuazione autobiografica.

 

Quanto della tua memoria è rimasto intrappolato tra le pagine del libro?


Tantissimo, naturalmente. Avevo tre mesi di età quando sono arrivato con i miei genitori e la mia nonna paterna, Maria Miculian, nel luglio del 1948, al Villaggio Giuliano-Dalmata di Roma, direttamente dal campo profughi di Servigliano, nelle Marche. Al Villaggio sono cresciuto e ci ho vissuto fino al momento del mio matrimonio, a 24 anni, per poi andare a vivere non più lontano di 500 metri da esso, gravitando così sempre nella sua orbita, visto che i miei genitori non si sono mai mossi da lì. Il Villaggio è presente un po’ in tutti i miei libri, magari come cameo, ma è talmente parte integrante della mia esistenza per cui la memoria non può prescindervi.

Naturalmente, parlo del primo Villaggio, quello dei cosiddetti padiglioni, l’uno all’altro collegato dalle due lunghe pensiline parallele che correvano lungo i bordi del viale principale, alberato, con le aiuole e la chiesetta di San Marco Evangelista a chiusura dello stesso. Parlo del Villaggio, con la sua gente, i suoi riti, le sue abitudini, i suoi caratteri, le sue macchiette, le sue feste, le sue gioie e i suoi dolori. Ormai, mi rendo conto che, alla mia età di 64 anni, sono uno dei sempre più pochi testimoni rimasti di quel primo Villaggio, insieme a coloro che allora erano bambini e poi ragazzi come me.

Certo, mettere in un romanzo che parla di Roma una realtà così originale come quella rappresentata dal luogo che raccoglieva una comunità così diversa da quella romana, per dialetto, tradizioni, costumi e caratteri, costituisce l’aspetto più originale di “Massacro per un presidente”, anche perché ancora oggi molti, nella stessa Roma, neppure sanno dell’esistenza di una realtà sociale del genere.

Nella postfazione Giancarlo De Cataldo, a proposito dei due protagonisti, annota che sono entrambi fiumani e coglie una realtà ancora sconosciuta a tanti italiani sulle cause della diaspora. Scrive: “Hanno conosciuto la durezza, ma anche la solidarietà, del campo profughi. Le loro sono voci dell’esodo coatto. Lanciano lampi strazianti sulla tragedia dell’Istria. […] I toni con i quali Raul e Dolcich rievocano il comune passato e le profonde, inestirpabili radici che li legano, hanno il potere di colpire il lettore più a fondo di qualunque proclama. Qui la scrittura si distacca dal genere, da qualunque genere, e si fa coro elegiaco dei vinti dalla Storia. Vinti, ma non domi. Al punto che la Storia, con la sua cieca insensibilità di ieri e di oggi, degrada a mero scenario delle passioni umane. E di colpo quell’agitarsi di petardi e quel complottare di sedicenti rivoluzionari è come se perdesse d’interesse davanti a ciò che veramente conta: il cuore degli uomini e delle donne, da qualunque parte siano schierati”.

 

È veramente questo che conta per Diego Zandel?


Credo di sì. Nel romanzo a unire il colonnello dei carabinieri in servizio presso il SISDE Nereo Dolcich e l’anarchico Raul Radossi è il fatto di essere entrambi profughi, membri della stessa comunità, il cui senso di appartenenza viene prima di qualsiasi steccato ideologico o di altro tipo. Se però vado oltre il romanzo, dico che il senso di appartenenza alle stesse comuni radici, profughi o meno che si sia, conta per me più di ogni altra considerazione: forse per questo sono stato uno tra i primissimi profughi, nella veste pubblica di scrittore e giornalista, a cercare e a trovare una stretta connessione con i rimasti, a collaborare con l’EDIT, fino a far parte della redazione de “La battana”, un motivo di orgoglio per me.

Ho rifiutato da subito il confine che ci separava e che altri hanno posto, non noi. E attraverso il rifiuto di quello specifico confine è nato il mio rifiuto per tutti i confini. Saranno sicuramente gli effetti dei miei trascorsi anarchici, ma anche, sicuramente questo rifiuto è figlio di quella sofferenza che mi dava ogni volta in cui, dall’età di sei anni in poi, mi trovavo con i miei genitori ad attraversare quello, armato, che divideva l’Italia con l’allora Jugoslavia per andare a casa mia, nella mia terra, quella nelle quali ho le mie radici più profonde e, ancora, la parte maggiore della mia famiglia (della quale, quella paterna non appartiene, come quella materna, alla minoranza italiana).
Forse anche per questo, come Zorba il greco nell’omonimo romanzo del grande scrittore Nikos Kazantzakis, dico “Che importa se quest’uomo è bulgaro o greco. Per me è lo stesso; è buono, è cattivo, soltanto questo voglio sapere”. Ecco, diciamo che, se un metro di giudizio mi resta, ce l’ho solo con i cattivi.

 

Francesco Cenetiempo

“la Voce del Popolo”  22 novembre 2012

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