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Il Risorgimento adriatico che risvegliò (anche) gli slavi (CorSera 17 lug)

di Luciano Monzali *

Il Risorgimento italiano fu un modello politico e culturale ammirato da tanti popoli sottomessi a gioghi coloniali, temuto dalle Potenze conservatrici europee, spesso Imperi multinazionali retti da regimi assolutistici. Particolarmente forte fu il suo impatto sui popoli adriatici e balcanici, vicini geograficamente alla Penisola e le cui élite spesso conoscevano bene la lingua e la cultura italiane. Per i nazionalisti croati, serbi, sloveni, albanesi, bulgari, il liberalismo nazionale italiano costituì un esempio da seguire e imitare.

Il Risorgimento, innanzitutto, fu per costoro un incoraggiamento morale, che fece capire che anche un popolo debole e diviso poteva emanciparsi dallo straniero e conquistare la propria indipendenza. Gli eventi italiani mostrarono, poi, gli effetti rivoluzionari che l’affermazione politica dell’idea di nazione poteva produrre facilitando la diffusione e il riconoscimento dei principi di libertà e uguaglianza: in nome della comune appartenenza ad un’unica nazione era possibile spezzare le catene delle divisioni sociali, di casta e di classe, superare le diversità regionali e locali ed unire comunità ed individui separati per secoli da statiche e rigide barriere.

Sull’Adriatico orientale, da Trieste fino a Cattaro, vivevano anche vivaci e prospere comunità cittadine italiane, inserite e radicate in società multietniche e plurilinguistiche quali erano l’Istria, il Quarnero, la Dalmazia nell’Ottocento. Erano tutti territori dominati dall’Impero asburgico.

Il Risorgimento e il sorgere di uno Stato nazionale italiano ebbero su questi italiani conseguenze contraddittorie. Da una parte, l’affermarsi nella Penisola di una concezione nuova di nazionalità stimolò e suscitò entusiasmo in molti italiani adriatici, in passato spesso prigionieri di culture dominate da forti particolarismi e localismi, e creò una nuova attrazione verso la Nazione madre. Ciò spiega la partecipazione di molti triestini, istriani e dalmati, in primis il grande linguista Niccolò Tommaseo (papà italiano, mamma slava, nato a Sebenico, cresciuto a Spalato) e Federico Seismit Doda (nato a Ragusa, al fianco di Garibaldi nella Repubblica Romana, deputato e ministro delle finanze con Cairoli e Crispi) alle lotte risorgimentali italiane.

D’altra parte, però, il Risorgimento spaventò numerosi italiani adriatici in quanto rischiava di sconvolgere gli equilibri politici su cui si erano fondate le società delle coste dell’Adriatico orientale, con la prevalenza dei ceti cittadini di lingua e cultura italiane sulle popolazioni delle campagne, di lingua croata, serba, montenegrina e slovena: il diffondersi di movimenti nazionali slavi del sud che s’ispiravano al liberalismo nazionale della Penisola avrebbe messo, e mise, a rischio tutto ciò. Era peraltro inevitabile che il diffondersi di ideologie nazionali in società multietniche, nelle quali i valori del pluralismo liberale erano scarsamente radicati, rischiasse di alimentare conflitti e contrapposizioni, di dividere e spaccare le comunità piuttosto che unirle.

Questo timore del nazionalismo spiega la diffusione di movimenti autonomistici e regionalisti fra gli italiani adriatici nel Quarnero e nella Dalmazia nel corso dell’Ottocento, che più che l’unione all’Italia auspicavano la permanenza dei loro territori all’interno di un Impero asburgico liberale e pluralista, protettore delle minoranze linguistiche. Esponente di questo indirizzo liberale autonomista, lealista verso gli Asburgo, fu, ad esempio, lo zaratino italiano Luigi Lapenna, discendente di immigrati pugliesi, magistrato e poi deputato alla Camera dei deputati di Vienna, alleato dei liberali viennesi e difensore di un’identità dalmata slavo-italiana  che rifiutava logiche nazionaliste.

Va detto che questi movimenti autonomistici in Dalmazia, Istria e Quarnero furono alla fine sconfitti dall’emergere inarrestabile dei nazionalismi, italiano, croato, jugoslavo, serbo nel corso della seconda metà dell’Ottocento.

D’altronde, i nazionalismi furono vincenti perché rispondevano anche ai bisogni di nuova appartenenza identitaria sorti in conseguenza del diffondersi del capitalismo in Europa: in società dove gli individui, affrancati da servitù e vincoli giuridici, si spostavano dalle campagne e dalle montagne verso i centri industriali e commerciali alla ricerca di miglioramento sociale ed economico, l’identità nazionale forniva un importante elemento unificante nel processo d’integrazione di persone e famiglie sradicate all’interno di comunità che crescevano tumultuosamente.

Il Risorgimento italiano, in fondo, stimolò il risveglio nazionale slavo del sud e albanese ma alimentò anche gli antagonismi fra italiani e popoli adriatici. Il nuovo Stato italiano «politicizzò» e semplificò progressivamente l’identità delle popolazioni italiane e italofone viventi nell’Adriatico, spesso di origine multietnica e bilingui, e che per secoli avevano vissuto la propria italianità come un fatto prevalentemente culturale e linguistico. In particolare dopo il 1866 e la sconfitta della flotta sabauda a Lissa, il delinearsi di un progetto di conquista di alcuni territori nell’Adriatico orientale da parte dell’Italia al fine di garantire la propria sicurezza strategica facilitò notevolmente la politicizzazione della questione nazionale italiana in Istria e Dalmazia.

Il governo di Vienna e le leadership politiche nazionaliste slovene e croate considerarono, spesso strumentalmente, gli italiani d’Austria una potenziale quinta colonna dell’Italia e un presupposto per le aspirazioni territoriali del giovane Regno italiano. Con il trascorrere del tempo divenne sempre più difficile per i dalmati, gli istriani e i fiumani evitare una scelta politica fra «italianità», «croatismo» o «jugoslavismo», fra irredentismo politico italiano, lealismo asburgico o adesione ai nazionalismi slavi del sud.

Alla vigilia della prima guerra mondiale, nonostante un non lontano passato segnato dalla prevalenza d’identità locali e regionali e da collaborazione, complementarità e vicinanza fra italiani, croati e sloveni, era ormai evidente come fossero le rivalità linguistiche e i conflitti politici nazionali, affiancati anche dai contrasti economico-sociali, a caratterizzare prevalentemente i rapporti tra le comunità italiane dell’Adriatico orientale e le popolazioni slave del sud.

La prima guerra mondiale e il successivo affermarsi di regimi autoritari e ultranazionalisti come il fascismo italiano e la dittatura monarchica jugoslava aggravarono e radicalizzarono questi conflitti nazionali preesistenti, che riesplosero drammaticamente dopo il 1941. L’invasione tedesca e italiana della Jugoslavia, le lotte partigiane contro gli occupatori e la vittoria finale del movimento di liberazione popolare jugoslavo guidato dal partito comunista produssero una drammatica semplificazione etnica e nazionale in Istria, Quarnero e Dalmazia, con l’espulsione della gran parte degli italiani autoctoni, gli orrori delle foibe e il tramonto di una civiltà, quella degli italiani dell’Adriatico orientale, che per secoli era riuscita a fondere e conciliare latinità e slavismo in una sintesi originale e unica.

* docente di Storia delle relazioni internazionali all’università di Bari e autore tra l’altro di «Italiani di Dalmazia.Dal Risorgimento alla Grande Guerra».

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