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Il secolo breve di Fiume (Il Foglio 31 dic)

Destra nazionalista, sindacalismo rivoluzionario e irredentismo giacobino si fusero per la prima volta nell'impresa
Perfino modello dicyberpunk, Fiume assume i contomi della saga banàtesca e dei arrembante patriottismo e anarchismo
Sarà modello dei radicalismi alla moda nel Dopoguerra consumista, poi dello sperimentalismo e della pop art '
Fiume è l'utopia simbolica: festa continua, convìvialità gioiosa, sensualità esibita e bramata, gratuità come dono

di Angelo Mellone

Il 23 dicembre 1920 alla mattina il genera­le Enrico Caviglia, comandante dell'Otta­va armata e commissario straordinario per la Venezia Giulia, emana l'ordine di inizio delle operazioni contro la "Città di vita", al secolo Fiume, Rijeka per i croati, da sedi­ci mesi occupata da truppe regolari e irre­golari, legionari e bersaglieri, granatieri e arditi, marinai e aviatori, gli accoliti della "più grossa diserzione dell'Esercito italia­no dalla sua fondazione" (Giacomo Properzj) assemblata vorticosamente da Ga­briele D'Annunzio in un esperimento dì Al­trove politico di scarsissimo valore fattua­le, alla contabilità dei confini postumi del­la Grande guerra, eppure e tuttora di fol­gorante valore simbolico.

La resistenza delle truppe dannunziane, gli Arditi imbottiti di cocaina contro le mi­tragliate dì alpini e fanti della Brigata Lombardia, dura lo spazio di qualche gior­no. Viene occupato l'aeroporto, le truppe italiane-giolittiane avanzano contro le truppe italo-fiumane. Le urla "Viva l'Ita­lia" curiosamente e tragicamente echeg­giano da entrambe le parti delle barricate, rimbalzando in una curiosa gara di spiri­to patriottico. Il colore delle divise annac­qua le poche differenze nel colore grigio di un cielo carico di inverno. L'ordine del sottoposto di terra di Caviglia, il generale Ferrano, e precisamente l'ordine dì ope­razione numero cinque, prevede senza fronzoli che "si avanzi su tutta la linea so­praffacendo col fuoco chiunque cerchi di ostacolare l'obbedienza dei nostri soldati stop si entri in Fiume nel più breve tem­po possibile stop".

Le truppe si sparano addosso e la Marina comincia a cannoneggiare le banchine del porto salendo con la gittata sino alle stanze del Palazzo di governo, dove D'An­nunzio sta esercitando le sue possibilità d'un armistizio decoroso per i suoi convi­tati al banchetto di guerra e per se stesso. E la battaglia non conosce che flebili soste alla vigilia, a Natale, fino a che, è il 27 di­cembre, le operazioni militari vengono di­chiarate tecnicamente concluse. Fino alla contabilità fratricida di ciò che lo stesso Vate, cogliendo al balzo la possibilità di una data d'olocausto e sangue, definirà il "Natale di sangue". E così lo ricordiamo noi, e lo ricorda chiunque addensi su quel­l'evento le possibilità inespresse del Nove­cento, dello spirito italiano, del fascismo impossibile, dell'antifascismo eroico, del libertarismo piratesco e dell'immaginazio­ne istituzionale e costituzionale.

E dunque, l'epopea di Fiume è un para­dosso che fa la storia italiana e che al pari dei paradossi conosce un destino burrasco­so e di continue rimasticature. Pensiamoci. Ha luogo in una piccola città irredenta del­l'Adriatico e a basso tasso di italianismo, e neppure la più grande o importante in con­fronto a quel mastodonte identitarie com­merciale che è Trieste, quel "confine del­l'anima" pochi chilometri più a nord. L'oc­cupazione di Fiume dura pochi mesi, il breve giro di un anno e mezzo, dall'estate del 1919 al gennaio del 1921. Esaminato coi freddi formulari dell'analisi politica, co­stringe a inerpicarsi su una stretta via di mezzo, un'intercapedine emotiva tra il vel­leitarismo nicciano di Gabriele D'Annun­zio e il frammischiarsi di slanci eroici, sentimenti sinceri, patriottismi ardenti e pul­sioni belluine rasenti il terreno del teppi­smo. Eppure, quello che accade tra la spe­dizione dei legionari, partiti da Ronchi, al confine italiano, e guidati da un Vate feb­bricitante su un camioncino Fiat, e il "Na­tale di sangue", si fa non solo epopea scol­pita nell’immaginario collettivo ma, soprat­tutto e stranamente, porto franco dell' sìa ideologica.

Sia chiaro, vale anche per Fiume il mo­nito dì Alain Badiou: "La commemorazione è anche ciò che impedisce ogni riattivazio­ne". E forse, a distanza di novant'anni dal­le cannonate della Marina sul porto dì Fiu­me e le mitragliate del generale Caviglia sui legionari, esaurita forse del tutto la fo­ga pirotecnica della politica novecentesca e dai carnefici delle sue incarnazioni, da riattivare c'è ben poco, e così si può ragio­nare. E su cosa? Su Fiume. Su una storia di sedici mesi che, in una saga dei destini in­crociati, trova la convergenza episodica e indicativa tra la destra nazionalista e il sin­dacalismo rivoluzionario, l'irredentismo giacobino e il patriottismo delle radici, l'e­vocazione dello spirito degli antenati e le grazie macchinifiche del futurismo, l'ap­pello ai valori e l'interpello del vizio eret­to a sistema di stimoli temerari.

E così fa strano che ancora qualcuno si stupisca se in tanti esegeti delle culture po­litiche nate nel Novecento, ovvero tutto ciò che è stato prodotto e macinato vorticosa­mente nel "secolo breve", si cerchi in dire­zione della Fiume dannunziana uno stimo­lo, uno spunto, un'ispirazione, un tratto ideologico che possa prefigurare, chessò, i comitati operai o il corporativismo, il Ses­santotto o la rivolta ungherese del 1956, o il libertarismo di massa. Ciascuno può tor­nare a Fiume e fare shopping culturale di ciò che gli può essere utile per sostenere che sì, nella alchemica diavoleria di solda­ti e pirati, letterati e prostitute, patrioti e disperati, aviatori nudisti e futuristi ebbri che D'Annunzio convoca alla sua epifania di condottiero, è dato rintracciare gli albo­ri di qualsiasi barricata che ha incendiato il ^Novecento. Tutto vero o tutto falso, giac­ché quella storia breve e lacerante è come una donna che promette il suo amore sen­za concederlo a nessuno.

Fuori dal tempo ma dentro la storia. Ri­prendendo di nuovo una categoria di Ba­diou, Fiume è l'apparire di un "inesisten­te". E' un evento: un tempo nuovo che appa­re sia rompendo quello precedente sia ma­nifestandosi come il suo eccesso. L'epopea di Fiume riprende il tempo della guerra e delle jungeriane "tempeste d'acciaio" che solo da pop hanno abbassato il clangore del conflitto mondiale, richiama al senso delle armi italiani intrepidi e incontentabi­li reclutati da D'Annunzio al grido della "vittoria mutilata", eppure il Vate disloca questa mobilitazione di energie in una spe­cie di regno della fantasia, promettendo a chiunque là fosse convenuto un'esperien­za radicalmente altra rispetto allavita or­dinaria, una trincea accomodata sui cusci­ni del piacere. Il fenomeno estetico-milita­re de "l'ultima impresa di D'Annunzio", co­me la definiscono Mimmo Franzinelli e Paolo Cavassini nel loro album fotografico "Fiume" (Mondadori), è quello dei reparti che seguono il Vate e s'accostano al gesto corsaro degli Uscocchi, reincarnazione dei pirati di questo screzio di terra veneziana e capaci di sequestrare piroscafi, o alla spavalderia dell'aviatore Guido Keller che vola su Montecitorio scaricando un pitale sulla politica incapace di far valere il prin­cipio dell'italianità di Fiume. Legioni nu­trite di discorsi dal balcone, nuove gestua­lità e nuovi motti coniati da D'Annunzio per il piacere futuro di Mussolini, decora­zioni improvvisate e nuove vestizioni per questo esercito informale che comincia a dubitare delle vecchie gerarchie.

Fiume è un'adunata. Non un'utopia. Se­guendo Michel Foucault, la si definirebbe un esempio di eterotopìa laddove "l'eterotopia è un'antiutopia. Infatti, se l'utopia è una speranza senza luogo, Merotopia co­stituisce un'eccedenza di realizzazione". E, continua Foucault, "l'eterotopia si mette a funzionare a pieno quando gli uomini si trovano in una sorta di rottura assoluta col loro tempo tradizionale". In quella paren­tesi, la storia si dilata e ingoia in quei po­chi chilometri quadrati che affacciano sul­l'Adriatico un grumo di avanguardia del se­colo che sta venendo. Fiume rompe il tem­po e rompe anche lo spazio. Non a caso, Hakim Bey, uno dei massimi teorici del cyberpunk e poi decrittatore delle "repubbli­che dei pirati", annovera Fiume come uno dei primi esempi di Taz, le "zone tempora­neamente autonome" che sfuggono dalle mappe che il potere disegna per esercita­re il suo dominio. La Taz è un'intuizione po­litica dirompente che spiazza, depista, confonde. E come la si vede, la saga dan­nunziana appare nelle forme del ricettaco­lo banditesco o dell'opera di arrembante patriottismo, le parate di folle'adoranti si addensano nella memoria accanto alle sto­rie di una popolazione stremata dall'em­bargo e dalle ruberie di qualche ardito fumantino, le storie di droga e sesso liberato s'accostano alle fotografie di un esercito pronto a fare l'Italia su un fronte inedito.

Certo, Fiume non fa cartografare dal po­tere (che sia quello moscio dell'italiano Nitti o quello arrembante dell'americano Wilson) il suo spicchio di territorio. Lo fa perimetrando i confini del laboratorio po­litico che, per mano del sindacalista De Ambris, si dà uno schema di Costituzione "che accolga in sé tutte le libertà e tutte le audacie del pensiero moderno, facendo ri­vivere le più nobili e gloriose tradizioni della nostra stirpe". In questa polarizzan­te richiesta di un eccesso di innovazione e di un eccesso di tradizione si forgia il pro­getto della "Carta del Carnaro", estrema­mente innovativo per l'epoca, tanto da pre­vedere una rivoluzione dei diritti civili e una prassi della cittadinanza fondata sulla scelta di essere fiumani e italiani.

Merce da dibattito dell'oggi, come no­vantanni fa. Fiume fa da battistrada di quell'arte della comunicazione politica che ancora oggi consegna l'etichetta di "dan­nunziano" a quel leader politico che fran­tuma regole e stabilisce nuovi ordini di re­torica e prassi.

Fiume, poi, schizza fuori dalle carte del potere perché sovverte le regole ordinarie della vita collettiva, D'Annunzio imposta il registro delle relazioni sociali sul timbro eccedente della festa continua, della convi-vialità gioiosa, della sensualità esibita e bramata con scarso pudore, della rottura del ritmo tradizionale anelando al dono e alla gratuità come sostituto funzionale del­lo scambio di merci e di norme. La "Città della gioia" diventa anche la "Città della festa", ed è qui che Claudia Salaris, per di­re, in "Alla festa della rivoluzione" (il Mu­lino) posiziona la sua idea di Fiume come antesignana dei moti libertari che innesca­no il Sessantotto prima della sua involuzio­ne ideologica marxista e operaista.

Così nell'Inesistente" accade l'impensa­to. Il libertinismo stirneriano dell'accolita fiumana è miele verso cui sciamano intel­ligenze vogliose di esperimenti sociali al­trove impossibili. Arriva Marinetti e qual­che schiera di poeti futuristi. Arrivano in­tellettuali da tutta Europa, attratti dal mi­raggio della "Lega dei popoli oppressi" che seduce gli egiziani decenni prima del nas-serismo. Arrivano poeti, disgraziati, poco di buono e poco di niente, la signora del Du­ca d'Aosta e Arturo Toscanini, che suona per i legionari al teatro "Verdi" e appone con D'Annunzio la firma su cartoline che eternizzano il gemellaggio. Arriva e va via lo stesso Benito Mussolini, affascinato e in­quietato al tempo stesso dalla radicalità e dal sovversivismo mazziniano di ciò che ac­cadeva sotto l'ala morbida e protettrice del Vate, nel campo sociale e in quello cultu­rale. Arriva uno dei romanzieri di Fiume, Giovanni Comisso, che nel preludio del suo racconto spiega a un adolescente: "Tu de­vi sapere che sei giunto in una città peri­colosa per i tuoi giovani anni. Qui si fa sen­za alcun ritegno tutto ciò che si vuole".

Gabriele Marconi, nel suo recente "Le stelle danzanti" (Vallecchi), ripropone il tentativo di annusare questa parentesi li­bertaria che ancora ci fa domandare come fosse possibile, nel 1920, ritrovare tolle­ranza per esempi radicali di estetizzazio-ne come il superomismo dello stesso Comisso o il nudismo e l'etica bagorda dei "disperati" spronati da Guido Keller, e co­me si tentasse di socializzare la popolazio­ne fiumana in questo stile di vita aristo­cratico e guascone, condito di un'italianità boccaccesca, un attimo prima che esplo­desse il fuoco delle esercitazioni militari. Se è possibile pensare contemporanea­mente la visione contraddittoria rave party+mitragliatrice, l'eterotopia fiumana si riaffaccia al normale tempo storico. Ma è davvero possibile?

O questa storia comunque incredibile eppure vera di neopirati dediti al seque­stro di piroscafi, soldati allenati alla dilapi­dazione del cibo e incuranti della fame prossima futura, e cittadini tanto esausti da questa mobilitazione dell'assurdo eppure stregati dalla volontà di potenza dannun­ziana, insomma, questa storia prende for­ma avendo già in sé la fine cruenta e immi­nente come condizione stessa della sua esi­stenza?

Qui le strade dell'interpretazione si di­vidono. Perché l’evento" secondo Badiou, la "eterotopia" secondo Foucault e la Taz secondo Bey, e potremmo aggiungere le "Repubbliche elementari" nella formula­zione che la Arendt dà di ogni esperimen­to di nuova socialità politica, portano con sé il germe necessario della provvisorietà. Esistono perché sono caduche nell'essen­za. Esistono perché già sanno che saranno schiacciate da un potere che non può sop­portare la loro presenza. E allora il fiumanesimo, l'incubatore di energie e ribelli­smo onirico che D'Annunzio condensa nei sedici mesi di reggenza, l'esplosione di nuova socialità che allibisce i paragoni con iradicalismi alla moda del Dopoguerra consumista, lo sperimentalismo istitu­zionale di un riformismo patriottico e sov­versivo, rischiano di apparire nelle forme di un'installazione della pop art o, al massimo, un "rifugio dell'anima" per chi favo­leggia una qualche ucronia del Novecento che non è stato.

Oppure, opportunamente depurato di ogni eccitazione storiografica o reducistica, la parentesi della "Città di vita" tiene nel­la coda dei suoi effetti la dimostrazione che è possibile l'incontro tra patriottismo e li­bertarismo, tra missione storica e libertà dell'individuo, tra "nazione come scelta" e socialità non gerarchica. A Fiume D'An­nunzio e la sua truppa di intellettuali-sol­dati, sfidando la sorte e annegando pure nel mare acido del velleitarismo, immagi­nano la dimensione di un'Italia possibile. Che questa perda e sia poi ingollata da dit­tature e partitocrazie, è un dato storico che non cancella la bellezza dell'alterità. Scol­pita nell'ennesimo motto del Vate: "Insor­gere è risorgere".

(courtesy MLH)

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