Destra nazionalista, sindacalismo rivoluzionario e irredentismo giacobino si fusero per la prima volta nell'impresa
Perfino modello dicyberpunk, Fiume assume i contomi della saga banàtesca e dei arrembante patriottismo e anarchismo
Sarà modello dei radicalismi alla moda nel Dopoguerra consumista, poi dello sperimentalismo e della pop art '
Fiume è l'utopia simbolica: festa continua, convìvialità gioiosa, sensualità esibita e bramata, gratuità come dono
di Angelo Mellone
Il 23 dicembre 1920 alla mattina il generale Enrico Caviglia, comandante dell'Ottava armata e commissario straordinario per la Venezia Giulia, emana l'ordine di inizio delle operazioni contro la "Città di vita", al secolo Fiume, Rijeka per i croati, da sedici mesi occupata da truppe regolari e irregolari, legionari e bersaglieri, granatieri e arditi, marinai e aviatori, gli accoliti della "più grossa diserzione dell'Esercito italiano dalla sua fondazione" (Giacomo Properzj) assemblata vorticosamente da Gabriele D'Annunzio in un esperimento dì Altrove politico di scarsissimo valore fattuale, alla contabilità dei confini postumi della Grande guerra, eppure e tuttora di folgorante valore simbolico.
La resistenza delle truppe dannunziane, gli Arditi imbottiti di cocaina contro le mitragliate dì alpini e fanti della Brigata Lombardia, dura lo spazio di qualche giorno. Viene occupato l'aeroporto, le truppe italiane-giolittiane avanzano contro le truppe italo-fiumane. Le urla "Viva l'Italia" curiosamente e tragicamente echeggiano da entrambe le parti delle barricate, rimbalzando in una curiosa gara di spirito patriottico. Il colore delle divise annacqua le poche differenze nel colore grigio di un cielo carico di inverno. L'ordine del sottoposto di terra di Caviglia, il generale Ferrano, e precisamente l'ordine dì operazione numero cinque, prevede senza fronzoli che "si avanzi su tutta la linea sopraffacendo col fuoco chiunque cerchi di ostacolare l'obbedienza dei nostri soldati stop si entri in Fiume nel più breve tempo possibile stop".
Le truppe si sparano addosso e la Marina comincia a cannoneggiare le banchine del porto salendo con la gittata sino alle stanze del Palazzo di governo, dove D'Annunzio sta esercitando le sue possibilità d'un armistizio decoroso per i suoi convitati al banchetto di guerra e per se stesso. E la battaglia non conosce che flebili soste alla vigilia, a Natale, fino a che, è il 27 dicembre, le operazioni militari vengono dichiarate tecnicamente concluse. Fino alla contabilità fratricida di ciò che lo stesso Vate, cogliendo al balzo la possibilità di una data d'olocausto e sangue, definirà il "Natale di sangue". E così lo ricordiamo noi, e lo ricorda chiunque addensi su quell'evento le possibilità inespresse del Novecento, dello spirito italiano, del fascismo impossibile, dell'antifascismo eroico, del libertarismo piratesco e dell'immaginazione istituzionale e costituzionale.
E dunque, l'epopea di Fiume è un paradosso che fa la storia italiana e che al pari dei paradossi conosce un destino burrascoso e di continue rimasticature. Pensiamoci. Ha luogo in una piccola città irredenta dell'Adriatico e a basso tasso di italianismo, e neppure la più grande o importante in confronto a quel mastodonte identitarie commerciale che è Trieste, quel "confine dell'anima" pochi chilometri più a nord. L'occupazione di Fiume dura pochi mesi, il breve giro di un anno e mezzo, dall'estate del 1919 al gennaio del 1921. Esaminato coi freddi formulari dell'analisi politica, costringe a inerpicarsi su una stretta via di mezzo, un'intercapedine emotiva tra il velleitarismo nicciano di Gabriele D'Annunzio e il frammischiarsi di slanci eroici, sentimenti sinceri, patriottismi ardenti e pulsioni belluine rasenti il terreno del teppismo. Eppure, quello che accade tra la spedizione dei legionari, partiti da Ronchi, al confine italiano, e guidati da un Vate febbricitante su un camioncino Fiat, e il "Natale di sangue", si fa non solo epopea scolpita nell’immaginario collettivo ma, soprattutto e stranamente, porto franco dell' sìa ideologica.
Sia chiaro, vale anche per Fiume il monito dì Alain Badiou: "La commemorazione è anche ciò che impedisce ogni riattivazione". E forse, a distanza di novant'anni dalle cannonate della Marina sul porto dì Fiume e le mitragliate del generale Caviglia sui legionari, esaurita forse del tutto la foga pirotecnica della politica novecentesca e dai carnefici delle sue incarnazioni, da riattivare c'è ben poco, e così si può ragionare. E su cosa? Su Fiume. Su una storia di sedici mesi che, in una saga dei destini incrociati, trova la convergenza episodica e indicativa tra la destra nazionalista e il sindacalismo rivoluzionario, l'irredentismo giacobino e il patriottismo delle radici, l'evocazione dello spirito degli antenati e le grazie macchinifiche del futurismo, l'appello ai valori e l'interpello del vizio eretto a sistema di stimoli temerari.
E così fa strano che ancora qualcuno si stupisca se in tanti esegeti delle culture politiche nate nel Novecento, ovvero tutto ciò che è stato prodotto e macinato vorticosamente nel "secolo breve", si cerchi in direzione della Fiume dannunziana uno stimolo, uno spunto, un'ispirazione, un tratto ideologico che possa prefigurare, chessò, i comitati operai o il corporativismo, il Sessantotto o la rivolta ungherese del 1956, o il libertarismo di massa. Ciascuno può tornare a Fiume e fare shopping culturale di ciò che gli può essere utile per sostenere che sì, nella alchemica diavoleria di soldati e pirati, letterati e prostitute, patrioti e disperati, aviatori nudisti e futuristi ebbri che D'Annunzio convoca alla sua epifania di condottiero, è dato rintracciare gli albori di qualsiasi barricata che ha incendiato il ^Novecento. Tutto vero o tutto falso, giacché quella storia breve e lacerante è come una donna che promette il suo amore senza concederlo a nessuno.
Fuori dal tempo ma dentro la storia. Riprendendo di nuovo una categoria di Badiou, Fiume è l'apparire di un "inesistente". E' un evento: un tempo nuovo che appare sia rompendo quello precedente sia manifestandosi come il suo eccesso. L'epopea di Fiume riprende il tempo della guerra e delle jungeriane "tempeste d'acciaio" che solo da pop hanno abbassato il clangore del conflitto mondiale, richiama al senso delle armi italiani intrepidi e incontentabili reclutati da D'Annunzio al grido della "vittoria mutilata", eppure il Vate disloca questa mobilitazione di energie in una specie di regno della fantasia, promettendo a chiunque là fosse convenuto un'esperienza radicalmente altra rispetto allavita ordinaria, una trincea accomodata sui cuscini del piacere. Il fenomeno estetico-militare de "l'ultima impresa di D'Annunzio", come la definiscono Mimmo Franzinelli e Paolo Cavassini nel loro album fotografico "Fiume" (Mondadori), è quello dei reparti che seguono il Vate e s'accostano al gesto corsaro degli Uscocchi, reincarnazione dei pirati di questo screzio di terra veneziana e capaci di sequestrare piroscafi, o alla spavalderia dell'aviatore Guido Keller che vola su Montecitorio scaricando un pitale sulla politica incapace di far valere il principio dell'italianità di Fiume. Legioni nutrite di discorsi dal balcone, nuove gestualità e nuovi motti coniati da D'Annunzio per il piacere futuro di Mussolini, decorazioni improvvisate e nuove vestizioni per questo esercito informale che comincia a dubitare delle vecchie gerarchie.
Fiume è un'adunata. Non un'utopia. Seguendo Michel Foucault, la si definirebbe un esempio di eterotopìa laddove "l'eterotopia è un'antiutopia. Infatti, se l'utopia è una speranza senza luogo, Merotopia costituisce un'eccedenza di realizzazione". E, continua Foucault, "l'eterotopia si mette a funzionare a pieno quando gli uomini si trovano in una sorta di rottura assoluta col loro tempo tradizionale". In quella parentesi, la storia si dilata e ingoia in quei pochi chilometri quadrati che affacciano sull'Adriatico un grumo di avanguardia del secolo che sta venendo. Fiume rompe il tempo e rompe anche lo spazio. Non a caso, Hakim Bey, uno dei massimi teorici del cyberpunk e poi decrittatore delle "repubbliche dei pirati", annovera Fiume come uno dei primi esempi di Taz, le "zone temporaneamente autonome" che sfuggono dalle mappe che il potere disegna per esercitare il suo dominio. La Taz è un'intuizione politica dirompente che spiazza, depista, confonde. E come la si vede, la saga dannunziana appare nelle forme del ricettacolo banditesco o dell'opera di arrembante patriottismo, le parate di folle'adoranti si addensano nella memoria accanto alle storie di una popolazione stremata dall'embargo e dalle ruberie di qualche ardito fumantino, le storie di droga e sesso liberato s'accostano alle fotografie di un esercito pronto a fare l'Italia su un fronte inedito.
Certo, Fiume non fa cartografare dal potere (che sia quello moscio dell'italiano Nitti o quello arrembante dell'americano Wilson) il suo spicchio di territorio. Lo fa perimetrando i confini del laboratorio politico che, per mano del sindacalista De Ambris, si dà uno schema di Costituzione "che accolga in sé tutte le libertà e tutte le audacie del pensiero moderno, facendo rivivere le più nobili e gloriose tradizioni della nostra stirpe". In questa polarizzante richiesta di un eccesso di innovazione e di un eccesso di tradizione si forgia il progetto della "Carta del Carnaro", estremamente innovativo per l'epoca, tanto da prevedere una rivoluzione dei diritti civili e una prassi della cittadinanza fondata sulla scelta di essere fiumani e italiani.
Merce da dibattito dell'oggi, come novantanni fa. Fiume fa da battistrada di quell'arte della comunicazione politica che ancora oggi consegna l'etichetta di "dannunziano" a quel leader politico che frantuma regole e stabilisce nuovi ordini di retorica e prassi.
Fiume, poi, schizza fuori dalle carte del potere perché sovverte le regole ordinarie della vita collettiva, D'Annunzio imposta il registro delle relazioni sociali sul timbro eccedente della festa continua, della convi-vialità gioiosa, della sensualità esibita e bramata con scarso pudore, della rottura del ritmo tradizionale anelando al dono e alla gratuità come sostituto funzionale dello scambio di merci e di norme. La "Città della gioia" diventa anche la "Città della festa", ed è qui che Claudia Salaris, per dire, in "Alla festa della rivoluzione" (il Mulino) posiziona la sua idea di Fiume come antesignana dei moti libertari che innescano il Sessantotto prima della sua involuzione ideologica marxista e operaista.
Così nell'Inesistente" accade l'impensato. Il libertinismo stirneriano dell'accolita fiumana è miele verso cui sciamano intelligenze vogliose di esperimenti sociali altrove impossibili. Arriva Marinetti e qualche schiera di poeti futuristi. Arrivano intellettuali da tutta Europa, attratti dal miraggio della "Lega dei popoli oppressi" che seduce gli egiziani decenni prima del nas-serismo. Arrivano poeti, disgraziati, poco di buono e poco di niente, la signora del Duca d'Aosta e Arturo Toscanini, che suona per i legionari al teatro "Verdi" e appone con D'Annunzio la firma su cartoline che eternizzano il gemellaggio. Arriva e va via lo stesso Benito Mussolini, affascinato e inquietato al tempo stesso dalla radicalità e dal sovversivismo mazziniano di ciò che accadeva sotto l'ala morbida e protettrice del Vate, nel campo sociale e in quello culturale. Arriva uno dei romanzieri di Fiume, Giovanni Comisso, che nel preludio del suo racconto spiega a un adolescente: "Tu devi sapere che sei giunto in una città pericolosa per i tuoi giovani anni. Qui si fa senza alcun ritegno tutto ciò che si vuole".
Gabriele Marconi, nel suo recente "Le stelle danzanti" (Vallecchi), ripropone il tentativo di annusare questa parentesi libertaria che ancora ci fa domandare come fosse possibile, nel 1920, ritrovare tolleranza per esempi radicali di estetizzazio-ne come il superomismo dello stesso Comisso o il nudismo e l'etica bagorda dei "disperati" spronati da Guido Keller, e come si tentasse di socializzare la popolazione fiumana in questo stile di vita aristocratico e guascone, condito di un'italianità boccaccesca, un attimo prima che esplodesse il fuoco delle esercitazioni militari. Se è possibile pensare contemporaneamente la visione contraddittoria rave party+mitragliatrice, l'eterotopia fiumana si riaffaccia al normale tempo storico. Ma è davvero possibile?
O questa storia comunque incredibile eppure vera di neopirati dediti al sequestro di piroscafi, soldati allenati alla dilapidazione del cibo e incuranti della fame prossima futura, e cittadini tanto esausti da questa mobilitazione dell'assurdo eppure stregati dalla volontà di potenza dannunziana, insomma, questa storia prende forma avendo già in sé la fine cruenta e imminente come condizione stessa della sua esistenza?
Qui le strade dell'interpretazione si dividono. Perché l’evento" secondo Badiou, la "eterotopia" secondo Foucault e la Taz secondo Bey, e potremmo aggiungere le "Repubbliche elementari" nella formulazione che la Arendt dà di ogni esperimento di nuova socialità politica, portano con sé il germe necessario della provvisorietà. Esistono perché sono caduche nell'essenza. Esistono perché già sanno che saranno schiacciate da un potere che non può sopportare la loro presenza. E allora il fiumanesimo, l'incubatore di energie e ribellismo onirico che D'Annunzio condensa nei sedici mesi di reggenza, l'esplosione di nuova socialità che allibisce i paragoni con iradicalismi alla moda del Dopoguerra consumista, lo sperimentalismo istituzionale di un riformismo patriottico e sovversivo, rischiano di apparire nelle forme di un'installazione della pop art o, al massimo, un "rifugio dell'anima" per chi favoleggia una qualche ucronia del Novecento che non è stato.
Oppure, opportunamente depurato di ogni eccitazione storiografica o reducistica, la parentesi della "Città di vita" tiene nella coda dei suoi effetti la dimostrazione che è possibile l'incontro tra patriottismo e libertarismo, tra missione storica e libertà dell'individuo, tra "nazione come scelta" e socialità non gerarchica. A Fiume D'Annunzio e la sua truppa di intellettuali-soldati, sfidando la sorte e annegando pure nel mare acido del velleitarismo, immaginano la dimensione di un'Italia possibile. Che questa perda e sia poi ingollata da dittature e partitocrazie, è un dato storico che non cancella la bellezza dell'alterità. Scolpita nell'ennesimo motto del Vate: "Insorgere è risorgere".
(courtesy MLH)