«Grazie a questa legge, lo Stato farà si che gli studenti possano visitare i luoghi come la foiba di Basovizza, monumento nazionale, o il museo di Padriciano, già campo profughi – ricorda – Un’esperienza che fu avviata dal Comune di Roma, quando era governato dal centrodestra, grazie all’ impegno dell’Assessore Laura Marsilio nell’ottica di un lavoro che ci vide ottenere anche la Casa del Ricordo, tutt’ora oggetto di un grande lavoro culturale da parte delle associazioni degli esuli. Ora queste esperienze potranno essere replicate e aggiornate, affinché possano essere tramandate ai giovani queste drammatiche pagine di storia causate da odio etnico, ideologico e religioso che non dovranno essere dimenticate. Oggi l’aula del Senato, approvando questo atto e anche attraverso il commosso e bellissimo intervento di Menia, ha anche reso onore nel migliore dei modi a Norma Cossetto, Medaglia d’oro al valore civile, a due giorni dall’ottantesimo anniversario del suo martirio». [ANSA – 03/10/2023]
«La legge sulle iniziative per la conoscenza delle foibe serve a stimolare il ricordo di una delle pagine più drammatiche della storia. Il gruppo di Forza Italia è onorato di essere stato il promotore di questa iniziativa legislativa con una proposta a mia prima firma.
Riportiamo, infine, l’ampia e significativa dichiarazione di voto del Senatore Roberto Menia.
“Signor Presidente, colleghi, vi dirò che questa dichiarazione di voto per me non è certo banale come altre, non è l’ultimo atto scontato del rito della liturgia parlamentare. Oggi per me è molto di più, perché questa è una cosa che a me sta nel cuore. Come ho avuto modo di dirvi molte volte, io sono figlio di quell’esilio istriano, orgoglioso figlio di quell’esilio istriano, che so a chi devo. Per me questo è un fatto che anche intimamente muove il cuore e la coscienza. E allora voglio dirvi che questa per me è un’altra tappa comunque di vittoria di una vecchia battaglia di giustizia contro la congiura del silenzio, contro il negazionismo, contro il giustificazionismo, che anche oggi ho sentito aleggiare più e più volte.
Non mi voglio quindi limitare, come è ovvio, a riaffermare il voto favorevole di Fratelli d’Italia (ci mancherebbe altro), né a rivendicare, come è giusto, che il testo unificato di questo disegno di legge prende testualmente tutto ciò che quei quindici senatori di Fratelli d’Italia avevano firmato, dando contenuto a questo testo, che poi dice tante cose, ma in particolare, a mio modo di vedere, segna il passo ed ha più significato, perché farà sì che tanti ragazzi e tanti giovani possano venire in quei luoghi del ricordo, possano capire, possano comprendere e possano vedere. Ricordo che, tra l’altro, quei viaggi di studi partirono proprio da Roma, tanti anni fa (è giusto ricordare anche questo).
Parlando di questi luoghi, non posso che cominciare da Basovizza.
Per chi di voi non lo sapesse, Basovizza, secondo la definizione di quello che fu un grande vescovo di Trieste (anzi, era vescovo di Trieste e Capodistria, perché allora le diocesi erano unite), monsignor Santin, è un calvario con il vertice sprofondato nelle viscere della terra. E nelle viscere della terra, lì, ci sono 500 metri cubi di infoibati, che vuol dire 2.000 vite finite là sotto. Era il maggio del 1945; quella foiba fu chiusa nel 1959.
Trieste era ritornata all’Italia cinque anni prima. Era passato il Governo militare alleato e in tutti quegli anni era la discarica degli abitanti di Basovizza. Nel 1970 fu posta una nicchia, all’interno della quale c’erano i 4.361 nomi di infoibati e deportati di Trieste e dalla Venezia Giulia, raccolti dal sindaco della seconda redenzione Gianni Bartoli.
Il 3 novembre del 1991 per la prima volta un Presidente della Repubblica italiana si degnò di venire a Basovizza: era Francesco Cossiga. Erano passati quasi cinquanta anni.
Si inginocchiò: me lo ricordo perché io c’ero davanti quella foiba. Egli pronunciò parole che recito quasi a memoria: “Chiedo scusa a questi italiani per il silenzio di un’intera classe politica, vile, che non ha avuto il coraggio di rendere omaggio a voi fino ad oggi”.
Basovizza divenne monumento nazionale nel 1992. Nel 2004, dopo sessanta anni, riconoscemmo con legge il Giorno del Ricordo e quello, per me, è stato il momento più bello che ho vissuto in questo Parlamento.
Ottanta anni dopo, pensate a quanto tempo maledettamente è passato, porteremo i ragazzi a vedere Basovizza. Fino ad oggi ci venivano, ma ci venivano volontariamente o con quei professori che, con l’ostilità di altri professori e del corpo docente, li portavano a vedere Basovizza. Oggi lo farà, finalmente, lo Stato.
Quanto tempo. Quanta pazienza e quanta perseveranza. Catone il vecchio, Cato censor, ci insegnava che la pazienza è la più grande di tutte le virtù. La tradizione cristiana ci ha trasmesso che è la virtù dei forti e, anzi, sant’Agostino diceva che ad essa si sommava il dono della perseveranza. Noi abbiamo avuto pazienza e perseveranza.
A tutte queste virtù si associa lo scorrere del tempo. È questa la riflessione che vi voglio porre. Allora vi porto con un’immagine a Pola.
Pola si chiamava Pietas Julia. La canta Dante nel canto IX dell’Inferno: «Sì com’a Pola, presso del Carnaro ch’Italia chiude e suoi termini bagna». A Pola sorge una grande arena, che è nata prima del Colosseo, anche se non lo sa quasi nessuno.
In quel febbraio del 1947, 32.000 polesani su 34.000 abitanti se andarono per sempre. Partirono col PiroscafoToscana. Sul Toscana stava il vescovo Radossi, che celebrava la messa sul ponte, quando partivano e salutavano con la bandiera Pola, che non avrebbero rivisto mai più. E cantavano il «Va’ pensiero». Nevicava.
MonsignorRadossi disse loro: non badate se c’è gente che ignora la storia dell’Istria e svisa la vostra fisionomia morale; se la stampa, che sa consacrare colonne di prima pagina ad un processo, non sa occuparsi delle vostre lacrime. Lasciate fare al tempo, che è sempre stato medico e maestro impareggiabile.
Questo è vero, ma il tempo cura le ferite dei singoli. Siamo senatori: ognuno di noi chissà quante ferite ha nell’animo. E sappiamo che il tempo cura le ferite dei singoli, ma che è l’esatto contrario quando si parla di storie collettive, quando si parla della storia di un popolo che è stato sradicato, che ha subito una grande ingiustizia, la pulizia etnica e un grande esodo. Il tempo uccide la memoria e la storia dei popoli. Ne decreta la scomparsa, tradisce il ricordo. Il tempo cancella tutto. Ecco perché forse questa è la maledizione del tempo.
Parlando di questi luoghi, questi sono luoghi che diventano monumenti attraverso il passare del tempo. Monumento deriva dal latino, dal verbo monere, che vuol dire ammonire, che vuol dire ricordare. Parliamo di luoghi che diventano monumenti e poi parliamo di luoghi che sono bruciati ormai dal tempo, perché non sono e non saranno mai più quello che erano. Sono luoghi dell’anima ormai per noi e sono voci, sono sacrifici, sono nomi, sono storie, sono città, sono paesi, sono testimoni, sono vite, sono radici, sono tradizioni, che nessuno conosce più e che passeranno per sempre.
Luoghi come Basovizza, ma ce ne sono altri, lassù, dove ci recheremo, come il campo profughi di Padriciano. Mi ricordo quando andai lassù con una donna, si chiamava Fiore, che mi raccontò di sua sorella Marinella, che nell’inverno del 1956 morì di freddo. Non aveva neanche un anno.
La mamma la portò al medico del campo, era diventata tutta blu e il medico le disse: signora, sua figlia è morta di freddo. Ma dietro quei campi profughi si stava nel filo spinato, nelle baracche, in quegli stanzoni in cui le famiglie venivano divise da coperte che venivano attaccate in alto, ai soffitti, attraverso il filo di ferro. Quei campi profughi sono stati filo spinato, impronte digitali come con i delinquenti, umiliazioni; poi le botte di Ancona, quando sbarcarono i profughi, i sassi e il latte versato sui binari a Bologna, gli sputi di Venezia, le forche di Taranto, i suicidi, gli impazziti, i morti viventi: troppi ne ho visti.
Poi il magazzino18 che sta nel porto vecchio di Trieste, con tonnellate e tonnellate di masserizie; un mondo che si è fermato quel giorno e che pare Pompei, dove tutto si è cementificato. In quel magazzino si possono vedere tutte le cose: i vecchi occhiali, i quaderni dei bambini che dicono: com’era bello il mio paese, oggi parto e non vedrò più la mia Istria. Lì trovi i letti, gli armadi, tutti con l’indicazione dei nomi, perché pensavano di poter ricostruire quelle vite. E ancora migliaia e migliaia di sedie, foto di volti, santini, giocattoli poveri, quaderni, attrezzi, bambole, occhiali.
Vedete com’è il tempo e com’è il destino? Domani notte ricorreranno gli ottant’anni del martirio di Norma Cossetto, che è diventata la figura simbolo del martirio delle foibe, medaglia d’oro al valor civile conferita dal presidente Ciampi il 9 dicembre 2005. Accompagnai sua sorella – quanto le volevo bene – che mi raccontò tutto di quella storia. Altro che certe interpretazioni dei fatti e il loro utilizzo; quante ve ne potrei raccontare.
Sapete cosa dice la medaglia d’oro? Così recita: «Giovane studentessa istriana, catturata e imprigionata dai partigiani slavi, veniva lungamente seviziata e violentata dai suoi carcerieri e poi barbaramente gettata in una foiba. Luminosa testimonianza di coraggio e di amor patrio. Villa Surani».
Ma non c’è solo lei. Parliamo di altre donne o di bambini che non sarebbero mai stati infoibati? Parliamo delle tre sorelle Radecchi, ossia Caterina, Fosca e Albina, di ventuno, diciannove e diciassette anni? Una aspettava anche un bambino. Furono violentate e infoibate alla foiba di Terli tutte e tre. Parliamo di Odda Carboni che si buttò da sola nella foiba di Vines gridando «Viva l’Italia», pur di non farsi buttare dai suoi carnefici? Parliamo di Alice Abbà di dodici anni, di Rovigno, infoibata con suo padre e sua madre? Parliamo di Ernesta e di Zulema Adam, moglie e figlia di Angelo Adam, ebreo di Fiume, socialista ma italiano? Era tornato da Dachau, dove era sopravvissuto (tatuaggio con il numero di matricola 59001). Finì in foiba o chissà dove, grazie ai liberatori jugoslavi.
Parliamo di Enrichetta Hödl, di diciannove anni? Sua sorella che vive ancora a Palermo mi disse: «come era bella la mia sorellina con il suo cagnetto bianco». Parliamo di Giuseppe Librio, che si arrampica a Fiume su piazza Dante per mettere il tricolore e gli sparano nella tempia? Fatemi ricordare Nidia Cernecca, a cui volevo tanto bene e che, con un coraggio da leone, andò a inseguire Ivan Motika, il boia di Pisino, che aveva portato a morte centinaia di persone e che fece rapire, ad esempio, Don Angelo Tarticchio. Vogliamo parlare dei trentasette preti ammazzati? Don Angelo Tarticchio fu trovato in una cava di bauxite, infoibato, nudo, con i genitali in bocca e una corona di spine calata sulla testa. Vogliamo parlare del beato Francesco Bonifacio, di Villa Gardossi, di Buie d’Istria, che è la città di mia mamma? È colui che scrive che chi non ha il coraggio di morire per la sua fede non è degno di professarla.
Queste sarebbero libere interpretazioni della storia?
Io adesso vi leggo un’ultima cosa, davvero l’ultima, ma ve la voglio leggere. È un’altra storia di un eroe, una storia che viene da Cherso: bellissima Cherso, veneziana, con i suoi leoni di San Marco, nel Quarnaro, isole Absirtidi perché là corre il mito di Medea e Giasone e del vello d’oro. È la storia di un giovane eroe che si chiamava Stefano Petris, un maestro di lettere che costituì una sua compagnia per difendere Cherso. Si chiamavano quelli della tramontana; si ribellò ai tedeschi e combatté contro di loro che volevano ammainare il Tricolore d’Italia.
Là morì il primo dei suoi, che si chiamava GiovanniNegovetti, a 18 anni, contro i tedeschi. Poi difese Cherso dagli jugoslavi, dai partigiani di Tito; era il 20 aprile del 1945, quando ormai la città era perduta, quando tutto bruciava e le strade erano fiumi di sangue ed era rimasto un pugno di uomini e ferito per la terza volta si consegnò prigioniero.
Verrà fucilato a guerra finita poco prima di Natale del 1945. La notte prima di essere ucciso scriverà le seguenti parole a sua moglie sul retro dell’ultimo foglio sgualcito de «L’imitazione di Cristo», che teneva sempre con sé: «Non piangere per me. Non mi sono mai sentito così forte come in questa notte di attesa, che è l’ultima della mia vita. Tu sai che io muoio per l’Italia. Siamo migliaia di italiani gettati nelle foibe, trucidati e massacrati, deportati in Croazia, falciati giornalmente dall’odio, dalla fame e dalle malattie, sgozzati iniquamente. Aprano gli occhi gli italiani, puntino i loro sguardi verso questa martoriata terra istriana che è e sarà italiana. Se il Tricolore d’Italia tornerà, come spero, a sventolare anche sulla mia Cherso, bacialo per me, assieme ai miei figli. Domani mi uccideranno, ma non uccideranno il mio spirito né la mia fede. Andrò alla morte serenamente e come il mio ultimo pensiero sarà rivolto a Dio che mi accoglierà e a voi che lascio, così il mio grido fortissimo, più forte delle raffiche dei mitra, sarà: viva l’Italia!»
Quel tricolore che voleva baciare non è mai tornato a Cherso, nell’Istria e in Dalmazia, ma finché ce ne sarà uno, anche uno solo di noi figli dell’esodo che continuerà a raccontare queste storie di amore e di dolore, di morte e di vita, e a tramandare queste lettere e a ricordare questi eroi, donne e uomini, martiri e santi, noi avremo vinto la maledizione del tempo”.