“Quando tornerà l’Italia faremo un numero a colori”: Faraguna ed io continuavamo a ripetercelo nel lontano e inquietante 1945 per tener deste le nostre speranze. “La Cittadella” sarebbe nata soltanto due anni dopo e a condividere le aspirazioni della stragrande maggioranza dei cittadini erano i benemeriti fondatori di Caleidoscopio – Luciano Cossetto, Duilio Saveri e Ferruccio Sbisà – assieme agli altri componenti di quella redazione, oggi tutti scomparsi. Redazione si fa per dire, e noi allora lo dicevamo per darci un po’ di arie: infatti, la sede del “quindicinale (fin che la va)” – così recitava la cauta scritta sotto la testata – consisteva nella stanza di un appartamento di via Ireneo della Croce. Mariano ed io, sconosciuti l’uno all’altro, vi eravamo approdati per caso lo stesso giorno in cui anche Tullio Kesich venne a proporsi come collaboratore.
A impreziosire le pagine del giornale che, incoraggiato dalla vasta popolarità conquistata, uscì ben presto con frequenza settimanale, provvedeva con tocco maturo Renzo Kollmann. Non soltanto a quel disegnatore, professionalmente affermato già nel dopoguerra, a José Talarico, dapprima sua discepola in arte, poi moglie amatissima fin oltre le soglie del Terzo Millennio e all’estro di Ugo Guarino è dedicata la mostra, allestita dall’Irci, Istituto regionale per la cultura istriano-fiumano-dalmata, inaugurata ieri nel Museo della civiltà istriana di via Torino 8. Nell’infausto 1946, stava ormai per scadere il “fin che la va” di Caleidoscopio. dal quale Faraguna ed io, al pari di Tullio Kezich – fermo restando il comune impegno a difendere l’identità nazionale di queste terre – ci eravamo distaccati per una divergenza di opinioni.
Pochi mesi dopo, con il permesso del Governo Militare Alleato, fece la sua comparsa la Cittadella. Il nuovo settimanale, di quattro pagine nel formato dei quotidiani di allora, recava le firme congiunte di Mariano Faraguna e mia, entrambi “responsabili” e rimase autonomo, fino a quando, dopo aver concentrato la parte essenziale dei propri contenuti nelle due facciate di un unico foglio, accettò la proposta di uscire abbinato a un Giornale del lunedì che, d’accordo con la proprietà del Giornale di Trieste, antensignano del Piccolo, prendeva il suo posto una volta ogni sette giorni. Più tardi la simbiosi con il Giornale di Trieste divenne ufficiale e tale rimase con Il Piccolo tornato in scena nel 1954 quando Trieste fu ricongiunta all’Italia. Il vagheggiato numero a colori non si fece, perché la tipografia del Piccolo non era a quel tempo attrezzata all’uopo. Ma alla mostra dell’Irci le vignette a colori di Kollmann e José non mancheranno.