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Il Territorio Libero di Trieste (balcanicaucaso.org 27ago13)

Diviso in due zone, una ad amministrazione alleata (la zona A, comprendente la città di Trieste, che ne era la capitale) e una ad amministrazione jugoslava (la zona B, comprendente un distretto sloveno, quello di Koper/Capodistria, e un distretto italo – croato, Buje/Buie), il Territorio Libero di Trieste (TLT) era un protettorato ONU, un interessante caso geopolitico e storico in una regione di confine particolarmente delicata, a metà strada tra mondo slavo e latino, ma anche tra l’Europa occidentale e quello che all’epoca era il blocco comunista.

La storia del TLT durò dal 1947, anno in cui venne istituito con il trattato di pace di Parigi, al 1975 quando, con la firma degli accordi bilaterali tra Roma e Belgrado, i due contendenti regolarono la questione secondo lo status quo che durava dal 1954. La zona B passò definitivamente sotto la sovranità della Jugoslavia (all’implosione che ne seguì, il territorio venne ulteriormente diviso tra Slovenia e Croazia, dando vita a nuove contese territoriali), mentre la zona A divenne parte integrante del territorio italiano.

Trieste, da quel momento, è una città italiana. Oggi, però, c’è chi è disposto a rimettere in discussione questo postulato. Il Movimento Trieste Libera – Svobodni Trst si batte infatti dal 2011 per ottenere il ripristino dell’antica zona A. È un progetto che, secondo i propugnatori dell’iniziativa, si baserebbe su delle solide basi giuridiche: «Il trattato di Osimo, siglato nel ’75, vale meno della carta su cui è stato scritto», taglia corto Stefano Ferluga, il presidente dell’associazione, intervistato da Osservatorio Balcani e Caucaso.

«Non è mai stato dibattuto preventivamente in parlamento, come previsto obbligatoriamente dall’art. 80 della Costituzione italiana. Inoltre, non è mai stato sottoposto alla ratifica dell’ONU dall’ex Jugoslavia, uno dei due paesi firmatari. Anche nel caso in cui la procedura si fosse svolta correttamente, si sarebbe trattato solo di un semplice accordo di buon vicinato bilaterale che non può, per ovvie ragioni, sovrapporsi ad un Trattato di Pace imposto all’Italia da oltre venti nazioni».

La morale, nella versione dei militanti del movimento, è semplice. L’Italia ha imposto illegalmente la propria sovranità sul territorio libero, depauperandolo delle proprie risorse naturali, culturali ed economiche: «Negli anni dell’Italia, Trieste ha perduto ogni contatto con il resto dell’Europa centrale e orientale. Anche durante gli anni peggiori della cortina di ferro, da qui passavano treni per Mosca, Belgrado, Istanbul», ricorda Ferluga. «Oggi non si può nemmeno andare a Vienna. Tutto finito, dimenticato. L’Italia ha persino permesso la chiusura dei nostri cantieri, ci ha cancellati dal mare. Gli amministratori italiani della città andrebbero processati perché questo, di fatto, è un vero e proprio embargo, un crimine contro una città intera che continua da decenni».

«Welcome to the free territory of Trieste», è la scritta che campeggia dalle finestre della sede dell’organizzazione, nella storica piazza della Borsa. La rivendicazione della validità dello status internazionale di Trieste venne sollevata per la prima volta mesi fa, con una motivazione piuttosto banale, per contestare, cioè, la giurisdizione di Equitalia nella vecchia ‘zona A’.

Se il trattato di Osimo è nullo, sostengono i rappresentanti del movimento, l’unico documento valido, cioè il trattato di pace del ’47, stabilisce (articolo 5, allegato X) che i cittadini del TLT non sono tenuti a contribuire al debito pubblico italiano. Da allora, i movimentisti hanno colto ogni possibile occasione per ribadire che la sovranità italiana non giunge fino a Trieste. Incluse delle petizioni indirizzate all’ONU e al Parlamento europeo, in quest’ultimo caso al fine di denunciare il censimento effettuato dalle autorità italiane «in violazione delle leggi internazionali».

Le rinnovate istanze autonomiste, gli slogan, le bandiere alabardate hanno fatto rapidamente breccia nel cuore di molti abitanti della città. Sono infatti migliaia ormai i sostenitori del Movimento, che alle ultime elezioni politiche ha persino invitato i propri simpatizzanti a presentarsi ai seggi, «rifiutando la scheda elettorale», per dichiarare pubblicamente «di non riconoscere l’autorità dello stato italiano». Un fenomeno al quale alcuni esponenti politici locali, come ad esempio il consigliere comunale Pietro Faraguna, guardano con preoccupazione: «Trieste ha una forte tradizione indipendentista», dichiara a Osservatorio, «ma questo movimento per alcuni versi si presenta come una novità e le sue dimensioni non vanno sottovalutate. In molti hanno seguito l’appello a boicottare il voto, a febbraio, e in modo piuttosto agguerrito: non stiamo parlando di gente che si è limitata a starsene a casa la domenica a guardarsi la partita, qui si tratta di persone che hanno fatto la fatica di recarsi alle urne solo ed esclusivamente per denunciare la sovranità italiana su Trieste».

Faraguna ha anche scritto sul proprio blog un intervento nel quale smantella le giustificazioni giuridiche del Movimento: «Si tratta di tesi che, anche se manifestano un disagio profondo, non hanno alcuna chance di portare benefici alla nostra comunità», sintetizza.

Negli ultimi mesi, però, la voce di Trieste Libera – Svobodi Trst si è fatta sentire sempre più spesso. Con iniziative simboliche provocatorie, come la ricostruzione della frontiera a Duino, raduni, manifestazioni; o con aspre polemiche con il principale quotidiano della città, quel Piccolo che viene accusato di essere il grimaldello ideologico dell’italianità di Trieste.

Sarebbe fin troppo facile notare come la tensione autonomista di Trieste si sia riaccesa in un momento di profonda crisi economica, un momento in cui mettere in discussione lo stato italiano – e le sue varie propaggini, come nel caso di Equitalia – coincide con la possibilità di scrollarsi di dosso eventuali ‘balzelli’ decisi dall’erario romano.

Ma queste motivazioni non spiegano tutto. Se il Movimento è cresciuto così tanto (sono 7.000 i suoi sostenitori a Trieste), se alcune manifestazioni sono arrivate nelle vie di Vienna, se i giornali della regione balcanica hanno cominciato a guardare con interesse a questa nuova espressione dell’autonomismo triestino, è anche perché nel secondo dopoguerra, per Trieste, diventare italiana ha significato purtroppo – nei fatti – rinunciare alla sua collocazione più congeniale, non solo da un punto di vista economico o politico, ma anche geografico e sentimentale: Trieste come città intesa non tanto, o non solamente, come città italiana, bensì come porta sui Balcani, come anello di congiunzione tra l’Europa dei Latini e quella degli Slavi del Sud.

Un carattere multiculturale che ricompare, a modo suo, nella fortuna che le rivendicazioni di ‘Trieste libera’ stanno cominciando ad avere nelle regioni che facevano parte della ‘Zona B’.

In Slovenia, alcuni cittadini hanno presentato anch’essi una petizione al proprio governo affinché la questione dello status del TLT sia rimessa all’ordine del giorno: «Il trattato di Osimo è semplicemente un accordo bilaterale tra due stati su di un territorio che legalmente non è nemmeno loro», si legge nel comunicato. Che conclude con un parallelo molto forte: «È come se la Comunità internazionale avesse riconosciuto l’avvenuta spartizione della Bosnia Erzegovina tra Serbia e Croazia durante la guerra degli anni novanta».

Rodolfo Toè
www.balcanicaucaso.org 27 agosto 2013

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