ANVGD_cover-post-no-img

Il valico dove si giocò il destino di Trieste (Il Piccolo 01 mag)

di PIETRO SPIRITO

La sbarra di confine c’è ancora, bianca, rossa e blu, ma è aperta in mezzo, a lasciare un varco che non si chiude. La guardiola del posto di blocco sloveno è un rudere sorprendentemente verniciato di fresco. Dentro, nell’unica stanzetta senza più la porta, una vecchia stufa in ghisa ricorda stagioni più fredde. Anche l’asta della bandiera è ancora al suo posto, mentre dalla parte italiana il presidio della Guardia di finanza adesso è uno stanzino ingombro di immondizie, senza nemmeno più l’insegna che annunciava l’ultimo lembo d’Italia.

Il vecchio valico agricolo dell’abitato di Bottazzo – due famiglie stanziali e la trattoria gestita da Massimo Krasna ed Erica Adami, ideali eredi del vecchio Bepi -, in fondo a quel minuscolo paradiso in terra minacciato dalla Tav che è la Val Rosandra, è l’ombelico della frontiera, il punto dove Trieste si è giocata il suo destino, il fulcro attorno al quale negli anni hanno girato i raggi di un confine mobile e inquieto.

Questo è stato sempre territorio liminare. È anche una frontiera della terra, geologica: la sinclinale dove scorre il Rosandra rappresenta la divisione, la scissura tra il carso Triestino e i carsi istriani. Qui nel medioevo transitavano la Via del sale e il confine con le terre venete. Dalle saline della foce del Rosandra, da Muggia e da Trieste, le carovane di mussolati passavano con i muli carichi di sale, olio e vino diretti nella Carniola. Fu proprio il tentativo di dirottare questi traffici vitali dalla Serenissima verso Trieste a provocare le guerre secolari con Venezia che mandarono più volte la città in rovina. Fino alla decisione di darsi all’Austria piuttosto che sottomettersi ai dogi: data che segna lo spartiacque fra la storia antica e moderna di Trieste.

Tutto è cominciato qui. Una semplice mulattiera era l’unico collegamento della città con il suo retroterra, e Bottazzo era lo snodo nevralgico, conteso, sorvegliato da una fortificazione di cui oggi rimane solo una vaga memoria. Caso curioso, come è stato più volte osservato, la Val Rosandra è uno dei pochi esempi in cui una guerra non ha distrutto ciò che doveva proteggere: oggi il sentiero turistico segue ancora la Via del sale, mentre i ruderi dei mulini testimoniano quanto poco abbia infierito l’uomo su questa briciola di mondo dove Storia e Natura camminano da sempre tenendosi per mano.

In tempi molto più vicini a noi, il valico di Bottazzo è stato il punto debole di un confine che separava due mondi, l’Est e l’Ovest, linea di demarcazione tra un altrove e l’altro chiusa e permeabile a un tempo. Dagli anni Cinquanta in poi i casi di sconfinamento tra Italia e Jugoslavia, anche drammatici, non si contano, eppure proprio in questo punto il tempo della frontiera ha accelerato la sua marcia: risale al 1981 la prima edizione di ”Confine aperto”, la camminata transfrontaliera senza formalità che fu uno dei primi atti di smantellamento del confine, festa continuata anche dopo lo sgretolamento della Jugoslavia, mentre le fiaccolate della pace, il Sentiero dell’amicizia e molte altre iniziative hanno via via concentratto sulla Val Rosandra un grappolo di significati legati tutti a una solida idea di fratellanza.

E oggi, a due anni dalla definitiva sparizione dei confini, cosa rimane di questa lezione e quale bilancio si può immaginare passando per il l’ormai ex valico agricolo di Bottazzo? «Io non lo so quali e quanti cambiamenti sta provocando la caduta dei confini – osserva lo scrittore e drammaturgo Furio Bordon, direttore prosa del Mittelfest -: credo però che, quantomeno, toglierà di mezzo quello che mi è sempre apparso come un clamoroso paradosso logico». «Mi spiego – continua Bordon -: prendiamo due nazioni contigue, differenti per etnia, lingua, tradizioni e cultura. Dove cade la linea del confine? Proprio là dove le differenze sfumano, dove una popolazione si è storicamente compenetrata nell’altra per unioni familiari, influenze culturali e di costume. La divisione politica opera dunque nel punto in cui la divisione reale viene meno, dove esiste una sorta di “terzo popolo” frutto delle due nazioni contigue. Dal momento che ho una grande fiducia nella categoria di pensiero denominata “logica”, ritengo che seguirla non possa che portare del bene».

Ma non tutte le ombre del confine sono svanite con l’apertura dei valichi: «Io penso che questo non sia stato mai il confine più chiuso d'Europa, neanche negli anni del primo dopoguerra fino alle relative aperture a ventaglio – interviene la traduttrice slovena Jolka Milic -: chiuso sì, e fino ai famosi lasciapassare troppo chiuso per noi tutti, abituati fin dalla nascita a scendere a valle quasi giornalmente per ragioni di lavoro, scuola, compere, in treno, corriera o in bici fino a Opicina per poi prendere il tram e finire in piazza Oberdan». «Per me – continua Milic – e per tanti altri era un confine addirittura dolorosamente chiuso, come una ferita che stenta a rimarginarsi, ma in senso lato non il più chiuso d'Europa. Ma secondo me, che sono traduttrice di professione e di queste cose me ne intendo, non c'è frontiera più chiusa né confine più rigido se solo da una parte c’è chi cerca di abbattere le barriere con il fattivo pluriculturismo e multilinguismo e l'accettazione degli altri. Cambiare mentalità?
Facile da dire e difficilissimo da praticare se a cambiarla deve soprattutto il fratello maggiore».

Pessimista anche Patrizia Vascotto, del Gruppo 85: «Gran bella parola, integrazione. Realizzarla, però, è tutt'altra cosa. Certe volte penso che apprezzavamo di più la trasfrontalierità quando c'erano i confini, mentre adesso che ne siamo privi ci pare che tutto debba accadere automaticamente». «L'Unione Europea – continua Vascotto – prevede la scomparsa delle frontiere economiche prima del libero scambio di uomini. Certo, la cultura valica i confini in altro modo, attraverso la pagina, o i canali virtuali. Così viaggiano le parole, i testi, le traduzioni, la voce di poeti, scrittori e intellettuali. Ma in un mondo speciale, di competenza della casta. Le barriere mentali dell'uomo della strada sono assai più resistenti».

Eppure è forse negli interstizi tra Storia e Natura che può passare una nuova fase di questo confine mobile: «Ho un ricordo di Bottazzo dei primi '80 – racconta il poeta Roberto Dedenaro -, una fredda sera di dicembre, il valico sembrava la miniatura di un confine così vivo e così irreale». «Ora – continua Dedenaro – è possibile riandare su verso Ocisla, come faceva Slataper, senza problemi, il bosco è incantevole, fra qualche anno il posto di guardia sarà cancellato e il confine difficilmente leggibile. Non so cosa sia cambiato negli ultimi due anni, esattamente so cosa è cambiato negli ultimi dieci-quindici: quasi tutto ed è stato un cambiamento enormemente positivo, in una parola credo che si possa dire che la grande maggioranza dei triestini pensi alla Slovenia semplicemente come ad un paese europeo entro i cui confini molti possiedono ricordi, radici con cui hanno imparato a colloquiare, a riconciliarsi».

0 Condivisioni

Scopri i nostri Podcast

Scopri le storie dei grandi campioni Giuliano Dalmati e le relazioni politico-culturali tra l’Italia e gli Stati rivieraschi dell’Adriatico attraverso i nostri podcast.