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Il vizio di tirare Pannunzio per la giacca (Libero 22 lug)

L’onda lunga dell’antiberlusconismo teologico produce effetti perversi che, però, non stupiscono alla luce di quella “Caporetto dell’intellighenzia” che si sta rappresentando sulle scene politiche italiane in questi ultimi tempi. Se il Cavaliere riassume nella sua persona quanto di peggio, nei secoli, sia stato depositato nell’anima nazionale – dalle dominazioni straniere, dal cattolicesimo controriformista, dall’individualismo premoderno col suo culto del “particulare”; se rappresenta la corruzione, l’incultura, l’assoluta mancanza di senso dello Stato della classe dirigente di centro-destra, tutto ciò che fa parte di un altro “stile”, si tratti di esponenti del conservatorismo (liberale) o della filosofia neoilluminista, può costituire un momento (un pretesto) di aggregazione delle forze sane della nazione, un rendez-vous tra avversari di un tempo che di fronte al nuovo Attila mettono generosamente da parte i loro antichi disssensi.

Si prenda il caso di Mario Pannunzio (1910-1968) e delle iniziative che si rifanno al suo nome, soprattutto in vista del centenario della nascita. Il fondatore del “Mondo”, una delle coscienze più alte dell’Italia laica, sintetizzava il meglio della tradizione liberale e “moderata” del nostro Paese. Nella breve stagione del “Risorgimento liberale”, il quotidiano da lui diretto nell’immediato dopoguerra, aveva risollevato la bandiera di Cavour umiliata dalla dittatura, e riproposto temi e problemi che sembravano consegnati a una stagione che l’età delle masse aveva chiuso per sempre.

Erano tempi – lo ha documentato con grande efficacia Fabio Grassi Orsini – in cui proclamarsi liberali poteva significare esporsi al rischio della vita sicché quanti, conservavano nel loro cuore il culto del Gran Conte o di Luigi Einaudi preferivano rientrare in politica nelle file della Dc, un partito protetto dalle robuste spalle della Chiesa. Al laico Pannunzio ciò non era consentito ma la sua coscienza non gli consentiva neppure una qualsiasi forma di compromesso con i nuovi detentori del potere che, al modo dei triumviri della res publica romana, si accingevano, con l’instaurazione della partitocrazia, a dividersi le spoglie dell’Italia martoriata. Assai prima degli storici revisionisti, Pannunzio denunciò le foibe, l’esodo dei giuliani (che i portuali genovesi non volevano far sbarcare indignati dall’abbandono del paradiso comunista riservato dal maresciallo Tito agli italiani dell’Istria e della Dalmazia), il Triangolo della morte, chiese le dimissioni del governo Parri, senza il dileggio dell’Uomo Qualunque («fessuccio parmi») ma con non minore fermezza, denunciò le ripetute violazioni di legalità del Nord Italia e gli arbitri dell’epurazione. Tutte battaglie che richiedevano un coraggio morale ma anche fisico che altri liberali non mostravano di avere. Non meraviglia, come documenta Mirella Serri, ne I profeti disarmati (Corbaccio) che i comunisti appiccassero il fuoco alla sede del “Risorgimento Liberale”.

L’avventura del Mondo
Nella successiva avventura de “Il Mondo” (1949-1966), Pannunzio, con alterna fortuna, riunì attorno a sé il meglio della cultura laica della Prima Repubblica: liberali conservatori come Mario Vinciguerra e Panfilo Gentile, ex azionisti come Guido Calogero – che poi avrebbe raccolto i suoi articoli nello stupendo Quaderno laico (Laterza) – cattolici liberali come Carlo Arturo Jemolo, impenitenti mangiapreti come il vecchio Gaetano Salvemini, uno dei grandi maestri della storiografia moderna, intellettuali anticonformisti come Nicola Chiaromonte ed Ennio Flaiano, liberisti doc come Ernesto Rossi e la lista potrebbe continuare con una sfilza di spiriti liberi di una specie quasi del tutto estinta. Congedandosi dai lettori nel 1966, con l’amarezza di chi era stato deluso dal fallito rinnovamento della vita italiana promesso dal centro-sinistra, Pannunzio constatava la deriva filocomunista di tanta parte dell’intellighenzia, che faceva di lui un sopravvissuto.

Se si pensa a questa vicenda, ci si chiede “che c’azzecca” col fondatore di “Risorgimento liberale” e del “Mondo” la Società Pannunzio per la libertà d’informazione. Vi si trovano, in nome di un laicismo che sta diventando «l’ultimo rifugio delle canaglie», studiosi che, legittimamente per carità, hanno ben poco a che fare con la tradizione liberale, come Massimo Salvadori – rientrato definitivamente nella casa madre gramsciazionista-, Gustavo Zagrebelsky – che ritiene impossibile la democrazia senza l’eguaglianza reale dei cittadini sicché solo le leggi sociali dell’economia collettivista potrebbero assicurare la sovranità popolare -, Nadia Urbinati – l’erinni “liberalsocialista” che dalle colonne di “Repubblica” denuncia il fascismo in cui siamo ricaduti -, filosofi come Giulio Giorello e Luigi Ferrajoli – che hanno scambiato il razionalismo universalistico alla francese col liberalismo di Constant e di Tocqueville -, polemisti con la bava alla bocca come Enzo Marzo – che, bontà sua, ha espulso Hayek dalla tradizione liberale, di cui invece farebbe parte pleno jure il povero Piero Gobetti apologeta dei nuovi liberali Lenin e in Trockij -, comunisti doc come Claudio Pavone etc.

E questo per non parlare degli “enti promotori”, tra i quali troviamo associazioni intitolate a Pietro Nenni, a Paolo Sylos Labini, a Piero Calamandrei, nomi e simboli tanto rispettabili (ma non tutti) quanto estranei alla famiglia liberale, a meno che non si ritenga che basta una goccia di sangue liberale per farne parte. Una vera beffa del destino per l’uomo che al referendum aveva votato per la monarchia.

Celebrazioni in vista
In vista delle celebrazioni pannunziane si parla assai poco, invece, di quel Centro Pannunzio di Torino che, fondato nel 1968, soprattutto su iniziativa di Mario Soldati e di Pier Franco Quaglieni, promuove, spesso ignorato dai grandi organi di disinformazione, importanti ricerche e seri convegni di studio sul grande lucchese (vedi la documentazione nel libro, a cura di Tiziana Conti, Giancarlo Borri e Anna Ricotti, Quarant’anni fuori dai cori, Ed. del Centro Pannunzio). Il C.P. ebbe come presidente Alda Croce, cui si deve la pubblicazione del carteggio Pannunzio-Croce, e tra i suoi collaboratori ed estimatori personalità di spicco della liberaldemocrazia italiana come Giovanni Spadolini, Valerio Zanone, Piero Ostellino, Girolamo Cotroneo, Enzo Bettiza, Giuseppe Bedeschi, Francesco Perfetti, Vittorio Strada, per limitarci a questi.

Il fatto è che esso, con la sua politica culturale rigorosamente super partes, lontana dalle mode ma aperta al dialogo con tutte le tradizioni e gli stili di pensiero che hanno lasciato un segno nella storia italiana, è sempre stato una spina nel fianco per la “cultura della resa”. Aver conferito il Premio Pannunzio non solo a Giovanni Spadolini ma a giornalisti come Giampaolo Pansa e Vittorio Feltri, aver invitato a parlare su Pannunzio il suo concittadino Marcello Pera – peraltro il maggiore studioso italiano di Popper – sono capi d’accusa che, per i chierici traditori, pesano come macigni. Al governo possono esserci partiti di destra o di sinistra ma la politica culturale resta sempre nelle mani della consorteria massmediatica che per le sue iniziative autopromozionali e trasformistiche riesce sempre a trovare fondi e sponsor, pubblici e privati.

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