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I.Marsan: la vittoria più bella è tornare a Zara (Voce del Popolo 11 ott)

ESULI Intervista a Isidoro Marsan, profugo borgherizzano italiano e campione di pallacanestro in casa e a Cantù

La vittoria più bella è tornare a Zara 

 di Silvio Forza

Isidoro Marsan è alto e magro. Proprio come veniva indicato cinquant’anni fa, quando giocò a pallacanestro, ad alti livelli, in quella Zara postbellica che era stata la culla del basket in Jugosla­via e poi a Cantù, luogo sacro per i cestisti italiani e che tale è diventa­to proprio con l’avvento di Marsan. Lo conferma anche il sito ufficiale della “Pallacanestro Cantù” in cui si legge: “..con la riconquista del­la serie A nel ‘56, (con Marsan in panchina n.d.r.) si apre un capitolo nuovo per la storia del basket can­turino: in società entra la famiglia Casella …allenatore resta lo zaratino Marsan”

“Alto e magro”, nel caso di Marsan, erano aggettivi che di­ventavano metafora di uno che sotto canestro ci sapeva fare; era­no complimenti, complimenti che valgono anche oggi per un signo­re di 83 anni, elegante e distinto, che non ha voluto mancare al re­cente Raduno dei Dalmati a Bel­laria (Rimini). Ce lo ha indicato Walter Matulich, uno che pur vi­vendo tra le nebbie lombarde porta la Dalmazia ben stretta nel cuore. “Nel secondo dopoguerra”, ci ha raccontato Matulich, “Marsan si distinse come operatore sportivo – “ante litteram”. Atleta poliedri­co, diede lustro, soprattutto, alla pallacanestro zaratina, nei ruoli sia di giocatore sia di giocatore-alle­natore. Vi gettò le basi del basket moderno, allevò con cura amore­vole, quasi paterna, una generazio­ne ispirata di ragazzotti, destinati a far conoscere all’universo mondo il nome della città dalmata. Uno su tutti: Pino Gjergja, suo allievo pre­diletto. Fa tenerezza, oggi, vederli passeggiare insieme, in Calle Lar­ga, a Zara, allievo e maestro, tessitori e testimoni di amicizia e soli­darietà: incanto di passioni che di­vidono le angosce a metà”.

 

La convinzione che Isidoro Marsan sia certamente un perso­naggio da presentare ai nostri letto­ri, si è rafforzata quando Matulich ci ha raccontato altri dettagli: “Nel 1953, in tournée” a Vienna con la squadra, Marsan decise di non rien­trare a Zara. Scelta alla quale lo in­dussero le “attenzioni” e le piace­volezze che il regime si piccava di ammannirgli. Agguantò allora l’Ita­lia e vi dimorò per cinque anni. Ec­celse, altra volta, nella duplice ve­ste di giocatore ed allenatore. Vis­se ramingo e solitario, fra Pavia, Cantù e Bologna per sbarcare, infi – ne, in Australia, ove tuttora risiede. Uomo modesto, schivo, integerri­mo, mai dimenticò o nascose quel che è stato ed è: – Borgherizzano ed Italiano”.

Isidoro Marsan lo incontro nel­la hall dell’albergo; l’idea di farsi intervistare non gli dispiace e no­nostante l’ora tarda – le 10 di sera – offre la sua disponibilità imme­diata. Un regalo prezioso, il suo, vi­sto che di cose da raccontare ne ha parecchie. Infatti, rimango ad ascol­tarlo fi no ad oltre l’una di notte: tempra, fi sico, salute e memoria lo sorreggono benissimo, è aperto ma vigile allo stesso tempo, cosciente che, anche sessant’anni dopo le tra­gedie istriane, quarnerine e zaratine in particolare, alcune cose è ancora meglio non dirle.

Isidoro Marsan nasce a Borgo Erizzo (in croato Arbanasi), fra­zione di Zara, nel 1925. Epigono di stirpe albanese, migrata dai dintorni di Scutari e stabilitasi nel territorio zaratino nel 1726, è fi glio di Matteo e Maria Perovich. Ed è interessan­te notare come, nonostante un padre di origine albanese e una madre di ascendenze montenegrine, Isidoro Marsan, com’è capitato a moltissimi dalmati, si sia sentito Italiano per tutta la vita. In casa, come ha detto egli stesso, con i familiari parlava un dialetto di derivazione albane­se; lo slavo lo parlavano una serva e un bracciante che veniva dal con­tado. “L’italiano”, conclude, “l’ho imparato fuori casa”. Ma se nella zona di Zara c’è stata un’italianiz­zazione derivante dall’urbanizza­zione, è successo anche il contra­rio: “mia nonna era una Canareggio (nome del noto sestriere di Vene­zia, n.d.r.)”, ci ha spiegato Marsan, “era di chiara origine veneziana, ma quando la famiglia si è trasferita a Bibinje sono diventati Kero poiché fuori Zara ci si slavizzava”. E qui non si può non segnalare che oggi Zara è una città animata solo dal forte orgoglio nazionale croato, una città in cui, in perfetto confl itto anti­storico, non vige alcuna forma di bi­linguismo, in cui l’autoctonia degli italiani non è statutariamente rico­nosciuta, in cui non operano più asi­li e scuole italiane, chiuse per decre­to nel 1953; operazione con la quale si completava il disegno del poeta partigiano Vladimir Nazor che agli italiani disse chiaramente: “Spazze­remo dal nostro suolo le pietre della torre nemica distrutta e le getteremo nel mare profondo dell’oblio”.

Ma sentiamo Marsan. E partia­mo dallo sportivo.

 

Erano coinvolti molti giovani

 

Lo sport è una parte impor­tante della sua vita. Come ha iniziato?

Ho iniziato con il nuoto, parte­cipando alle gare cittadine. Anda­vo benissimo nei 50 metri perché ero alto, ma per le distanze più lunghe ero troppo magro. Ho fat­to anche un po’ di lancio del gia­vellotto, lanciando oltre i 48 metri che all’epoca, da dilettante, non era male. Ho iniziato a praticare la pal­lacanestro nel 1937, a Zara, tra gli juniores. All’epoca la squadra se­niores militava nella Serie A ita­liana e aveva tra le sue file anche Lucio Benevenia che è stato nazio­nale italiano.

Zara era distante dal resto d’Italia. Con chi potevano con­frontarsi gli juniores?

Il nostro era un campionato ju­niores cittadino, tra sette squadre, tutte di Zara. Erano coinvolti molti giovani e per questo è stato molto importante per l’avvio della palla­canestro a Zara.

E queste sette squadre era­no?

Erano le squadre del Ginnasio, della Scuola tecnica, delle Magi­strali, dell’Istituto industriale, del Convitto Tommaseo (la scuola degli italiani dalmati che non vivevano a Zara ed erano quasi tutti spalatini), quella della Colonia agricola e infi – ne la mia, quella di Borgo Erizzo.

Bombardamenti tremendi

 

E dopo quel campionato?

Quella è stata solo la prima esperienza perché l’anno dopo, a 14 anni, sono andato a Bolzano dove ho frequentato una scuola milita­re. Sono rientrato a Zara solo nel 1943.

Dunque i tempi non erano buo­ni per la pallacanestro. È il perio­do dell’armistizio e dei successivi bombardamenti di Zara.

Erano tremendi quei bombar­damenti. Mi ricordo che il primo, quello del 2 novembre, è avvenu­to di notte, senza allarmi. Io mi trovavo a Borgo Erizzo che fortu­natamente non era stato meta de­gli attacchi. Il secondo bombarda­mento è stato durissimo, le bom­be cadevano dalla manifattura tabacchi verso il porto, le distru­zioni erano tremende, sembrava dovesse venir giù tutto tanto che la gente credeva si trattasse di un terremoto. Un disastro, morti dap­pertutto.

 

Ferito gravemente alla spalla e ai polmoni

 Sono stati 54 i bombardamenti di Zara tra il 2 novembre 1943 al 31 ottobre del 1944. Ben 584 tonnella­te di bombe sganciate su di una cit­tà di nessuna importanza strategi­ca, qualcosa come 54 chilogrammi di esplosivo per ogni 100 metri qua­drati. Anche lei è stato colpito?

Sì, durante il terzo bombar­damento, quello del 16 dicembre 1943. Io mi ero rannicchiato a ter­ra ma proprio l’ultima bomba ha colpito una pietra che mi è venu­ta addosso, ferendomi gravemente alla spalla e ai polmoni. Ero tutto insanguinato, la città era sottoso­pra, c’erano tantissimi incendi, così mi portarono a Bibinje da mia nonna.

 E rimane a Bibinje fino alla fine della guerra?

No. Il 6 agosto 1944 i partigiani jugoslavi prelevarono otto zaratini a Bibinje. Di notte, tutti quelli sopra i 18 anni. Io non sapevo neanche parlare croato.

Eravamo «volontari»

Potevate rifiutarvi di seguirli?

E come? Ci chiesero se vole­vamo annunciarci come volontari o come “forzati”. Ovviamente ab­biamo capito che dovevamo dire di essere dei volontari. Ci porta­rono a Knin, tre mesi di combat­timenti contro i tedeschi, contro i cetnizi serbi, contro gli ustascia croati.

 

Con lei c’erano altri zaratini?

C’erano anche zaratini preleva­ti prima di me. Mi ricordo di Boris Marussich, Antonio Perovich e An­tonio Marussich. Ma c’erano anche alcuni italiani fatti prigionieri dopo l’8 settembre. Mi ricordo benissimo di Claudio Lepri, che era di madre zaratina e di padre siciliano e di tale Gigli di Recanati che era un bravo in­fermiere.

Fu una carneficina

Per quanto tempo è rimasto nelle file partigiane? Com’è sta­ta quell’esperienza, considerato che quella in cui si trovava lei era zona di guerra vera?

Sono stato partigiano dall’ago­sto 1944 fi no al maggio 1945, al­l’interno della XIX divisione, XIV brigata, III battaglione con sede a Bukovica. Durante la permanen­za partigiana ci sono stati parecchi scontri armati. I comandanti era­no quasi tutti serbi ortodossi, tra i quali quel Simo Dubajić che è sta­to coinvolto alla fine del conflitto nel massacro di croati non comu­nisti a Bleiburg. Già il 2 novembre 1944, a Scardona, avevo letto che a Zara avevano fatto ingresso le trup­pe di Tito e a quel punto si sapeva che Zara sarebbe passata alla Jugo­slavia. Ma io dovevo rimanere “in bosco”. Sono stato a Mostar, poi in Dalmazia, poi abbiamo risalito la Lika giungendo quasi fino a Karlo­vac e le azioni di guerra sono state tante. Poi siamo ridiscesi verso Se­gna per prendere postazione in quo­ta Katerina da dove si doveva prose­guire per Fiume. Si voleva conqui­stare Fiume, ma c’è stato uno scon­tro tremendo con i tedeschi. È stata una carnefi cina; degli ottanta che eravamo siamo sopravvissuti sola­mente in otto, così siamo stati de­stinati ad un’altra compagnia con la quale il 3 maggio 1945 siamo entra­ti a Fiume. Con noi c’era un gruppo di fi umani con la bandiera italiana con la stella rossa.

 Per lei la guerra termina dun­que a Fiume.

No. Ci hanno fatto proseguire immediatamente per Villa del Nevoso e Sappiane verso Trieste. Ci siamo fermati proprio alle porte di Trieste dove ci è stato detto che la guerra era finita. Grande festa.

Così è rientrato a Zara.

Non subito. Siamo andati a pie­di fino a Buccari, poi in nave a Du­brovnik (Ragusa) con una brevissi­ma tappa di due ore a Zara a saluta­re mia madre e a prendere sigarette, carote, fagioli. Sono tornato a Zara solo a Natale, nel 1945.

 

Non eravamo comunisti…

E vi rimane fino al 1953. Come sono stati quegli anni?

Preferisco non raccontare quello che mi viene in mente. Posso dirvi soltanto che mia madre si è fatta sei mesi di prigione perché non erava­mo comunisti.

L’unica nota positiva viene dunque dalla pallacanestro.

Sì. Con una decina di zaratini ho inziato a riattivare il basket in cit­tà. I tabelloni erano di legno, i palloni più grandi di quelli attuali, si segnava molto di meno e i risultati erano diversi da quelli di oggi. Con me c’erano Zane, Berto Nadoveza, Ante Rellia, Tullio Rochlitzer, Vaz­zoler, Zerausek, Enzo Sovitti, Pave Rellia, Mircovich, Nade Domini e Pittoni. Nel 1946 se ne vanno in Ita­lia Vazzoler, Zerausek e Nadoveza, nel 1948 Rochlitzer passa alla Stella Rossa di Belgrado. Istituendo gli al­lievi e gli juniores abbiamo salvato la pallacanestro di Zara. La pallaca­nestro era una soddisfazione, un im­portante diversivo.

I giocatori parlavano in italiano

Giocavate nel campionato ju­goslavo?

Sì, nel 1946 ci siamo classificati secondi. All’epoca Fiume aveva la squadra più forte ma non li fecero giocare perché ritenuti ex italiani.

Chi giocava a Fiume?

Mi ricordo di Olivieri e Tertan.

E negli anni che seguirono, come si comportò la squadra?

Nel 1948 diventai giocatore – capitano – allenatore. Giocavo da terzino. Istruivo anche gli allievi tra i quali c’erano anche Pino Gjergja e altri 15 ragazzi, mentre Antonio Gjergja e mio fratello Benito mili­tavano tra gli juniores. La maggio­ranza dei giocatori era composta da zaratini, si parlava in italiano, anche se avevo incluso alcuni “scoiani” (isolani) e morlacchi. Si giocava al campo della Gil (Gioventù Italiana del Littorio, poi Jazine) all’aperto. C’erano molti spettatori, tifavano “Zadar, Zadar”, ma i giocatori par­lavano in italiano. Tra il 1946 e il 1953 abbiamo giocato sempre in se­rie A. All’epoca le squadre più forti erano la Crvena Zvezda e il Partizan di Belgrado, varie squadre di Zaga­bria (Mladost, Jedinstvo, Slavija), di Fiume (che  a fine anni quaranta si chiamava Lokomotiva), ma an­che lo Zrenjanin e il Vojvodina. Co­munque a Zara non ci ha mai battu­to nessuno.

Stavano anche per convocarla in nazionale.

Nel 1948 sono stato convoca­to con la nazionale jugoslava per le preparazioni ad Abbazia in vista delle Olimpiadi di Londra. Ma poi la squadra non partecipò al torneo.

 

A Vienna senza ritorno

Il 1953 è l’anno in cui si com­pleta l’esodo degli italiani dal­l’Istria, dal Quarnero e dalla Dalmazia. Se ne va anche lei, ma in circostanze diverse.

Nell’agosto del 1953 gli ameri­cani organizzarono a Vienna un tor­neo di 4-5 squadre al quale, accanto ad altre compagini austriache, par­tecipavamo anche noi di Zara. Ad un certo punto, all’improvviso, mio fratello Benito e Antonio Gjergja mi comunicarono che non aveva­no intenzione di tornare. Io, anche se non ero contrario all’idea, rimasi senza parole. Poi proposi di riman­dare il tutto al prossimo torneo al quale eravamo già stati invitati e che si doveva svolgere di lì a poco in Svizzera. Nel frattempo avrem­mo potuto parlarne con nostra ma­dre e avere tutti un minimo di ga­ranzia fi nanziaria, anche perché  mia madre, dopo la prigionia cau­sa l’anticomunismo, dipendeva dal mio stipendio. Loro non ne vollero sapere. In un bar incontrammo un tale di Bolzano che ci consigliò di rivolgerci ad un croato che a Vien­na si occupava dei casi dei profu­ghi. Vienna all’epoca era suddivisa in zone di controllo, ma di fatto era circondata dai russi. Con un’auto­mobile ci accompagnarono in una villa fuori città, una specie di cen­tro di raccolta profughi americano. Intanto la squadra non era rientrata a Zara, decisero invece di cercarci e si fermarono altri tre giorni. Il no­stro caso era diventato notizia. In quella villa, non so bene per qua­li canali, era venuto a cercarci per conto degli jugoslavi un tale Hor­vat che riuscì addirittura a parlare con me, ma io feci fi nta di essere spagnolo. Si teneva comunque ab­bastanza distante, perché gli ame­ricani gli dissero che avevo una malattia infettiva. In quella villa ri­manemmo una quindicina di gior­ni. Però la notte ci facevano dor­mire sempre in luoghi diversi, finché un giorno, con un piccolo ae­reo decollato proprio dalle rive del Danubio, ci trasferirono a Linz. Da Linz giungemmo nella piccola lo­calità di Asten dove c’era un cam­po per profughi dalla Jugoslavia. Lì mi sono trovato male, avevo paura perché c’erano tanti slavi e comun­que non mi fi davo. Così sono anda­to via, prima a Salisburgo, poi a In­nsbruck, dove ho acquistato un bi­glietto per Bolzano.

 Così raggiunse l’Italia.

Non fu così semplice. Eravamo senza documenti. Ci fecero scen­dere al Brennero, prima del confine, camminammo arrampicandoci per più di 25 chilometri. Superato il valico e arrivati a Vipiteno i carabi­nieri ci prelevarono e ci condussero a Bolzano. Ci fecero fare tre gior­ni di prigione, interrogatori a non finire perché c’erano ancora in cir­colazione tanti profughi e ricerca­ti tedeschi. Quando ci lasciarono, un carabiniere di Bolzano, al qua­le probabilmente facemmo pena, ci diede una lettera raccomandandoci di non aprirla prima di essere arri­vati a Trento. Dentro c’erano tremi­la lire…

 

Vita molto dura nel campo profughi

 Dove andaste?

Al campo profughi a Fraschette d’Alatri in provincia di Frosinone, dove in realtà c’erano due campi, il numero 1 e il numero due. Lì la vita era molto dura.

 Come vi trattavano?

Non ci trattavano…

Quando ho conosciuto un Lus­signano e un tale di Curzola mi sono sentito meglio. In campo ho incontrato anche Zaratini qua­li Giuseppe Marussich, che stava già al villaggio giuliano dalmata di Roma. Dopo due mesi di per­manenza mi salvò la pallacanestro perché da Venezia e da Pavia mi chiesero di venire a giocare.

 E suo fratello e Antonio Gjer­gja?

Se ne andarono in Cile.

 E lei tra Venezia e Pavia scel­se…

Pavia, perché lì c’era Tullio Rochlitzer che aveva giocato con me a Zara e perché a Pavia, al con­trario di Venezia, mi avevano of­ferto pure un lavoro in fabbrica. Poi purtroppo non se ne fece nien­te per questioni di carte, cittadi­nanza o profuganza, non mi ricor­do più. Così decisero di vendermi al Cantù.

 Allenatore a Cantù

 Che per lei fu, per certi ver­si, un colpo di fortuna. La squa­dra di Cantù, fondata nel 1936, solo nel 1952 si era affacciata al grande basket approdando in se­rie B. Nel 1953-54 c’è pure una stagione di serie A con una retro­cessione l’anno dopo. Dunque, al momento del suo arrivo, la squa­dra non era fortissima. Fu lei a trascinarla definitivamente in serie A.

Io sono arrivato l’anno della retrocessione, quando l’allenatore era l’americano Strong. Dopo il suo esonero mi venne affidato l’in­carico di allenatore. Tornammo su­bito in serie A e nel 1957/58 siamo arrivati addirittura quarti. In ave­vo il pregio di saper impostare la gara sulle debolezze degli altri. Al­l’epoca non si poteva fare di più, le varie Virtus Bologna, Borletti (poi Simmenthal) Milano e Ignis Vare­se erano ancora troppo forti.

 Lo sponsor era la Milenka

 Ma lei ha seminato bene. Sul­le sue fondamenta sono arrivati i successi della mitica Forst Can­tù (poi anche Gabetti, Squibb, Arexons e altri nomi di sponsor noti agli amanti del basket). La squadra è stata tre volte cam­pione d’Italia, ha vinto due cop­pe intercontinentali, due coppe di campioni, quattro coppe delle coppe e quattro coppe Korač. Ha avuto in squadra campioni come Pierluigi Marzorati e Antonello Riva. Ma tutto iniziò dalla sua “Oransoda” Cantù. Chi erano i giocatori?

Rocchi, Cappelletti, Bernardis, Sala, Zia, Rogato, Perego, Pozzi (di Lugano), Morani, l’americano di origine croata Tony Vlastelica noto come “Mister Uncino”, Masocco. Ma era tutta la società che funzio­nava bene dopo l’ingresso della fa­miglia Casella e del nuovo sponsor Oransoda. È curioso ricordare che lo sponsor di prima era la Milenka, una distilleria che poi perse una causa proprio con la Luxardo zaratina.

 

Se ne va dopo quattro anni.

Sì. Non andavo più d’accordo con il presidente. I tifosi mi scrisse­ro lettere di supporto ma non volli fare alcuna polemica perché, anche se con me c’era stata qualche incom­prensione, quel presidente aveva fat­to tanto per quella squadra e non me­ritava critiche pubbliche.

 La fattoria in Australia

Non lascia solo la pallacane­stro. Lascia anche l’Italia e se ne va in Australia.

Dovevo regolare definitivamen­te la mia vita. Avevo letto un libro di Arnaldo Cipolla sull’Australia e mi era piaciuto molto. Così deci­si che sarei andato almeno a vede­re e avrei deciso di conseguenza. Il viaggio era pagato dall’IRO (Inter­nationale Refugees Organization). Così, dopo essere salpato da Trie­ste con la nave “Flaminia”, arrivai di nuovo in un campo profughi, sta­volta a Melbourne. Mi sono inserito subito, ho giocato un po’ di pallaca­nestro, anche con Vladovich che ve­niva da Zara, stando sempre in com­pagnia di fiumani, istriani e triestini. Per quel che riguarda il lavoro, sono stati i fratelli Edo ed Enzo Mansut­ti ad assumersi come imbianchino. Poi mi sono messo in proprio. Mi occupavo di manutenzione generale nel settore immobiliare, avevo quat­tro operai tutti dalmati. Poi, piano piano, ho acquistato una fattoria alle spalle di Melbourne: dieci muc­che, un cavallo, tantissime bellezze naturali e nessuna donna. Ora, però, voglio tornare a casa, a Zara.

Tornare dunque nella sua Bor­go Erizzo “…ove il tempo mio pri­mo / e di me si spendea la miglior parte…”.

 

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