di Lucio Toth
Il riconoscimento del martirio di Don Francesco Bonifacio da parte della Chiesa cattolica è un evento di grande rilievo per noi esuli giuliano-dalmati perché getta un nuovo fascio di luce sull’intera vicenda delle Foibe, che ancora oggi è al centro di contestazioni che vorrebbero negare il valore del Giorno del Ricordo istituito dalla Repubblica Italiana sulla base di acquisizioni documentali e storiografiche di tutto rispetto per la loro attendibilità scientifica.
Questa volta è la Chiesa cattolica, cioè “universale”, che si pronuncia su un singolo caso, additando a tutta la comunità ecclesiale l’esempio di un “infoibato” come martire della Fede. Questa pronuncia induce ad alcune riflessioni prive di ogni trionfalismo.
È chiaro innanzitutto che non tutte le migliaia di vittime degli infoibamenti, delle uccisioni di massa e delle deportazioni nel gulag iugoslavo sono martiri della fede. Diversissime sono le ragioni che portarono quelle migliaia di infelici a una sorte così triste, che al tempo stesso però costituisce pur sempre una forma di “testimonianza” (martyrion).
Moltissimi furono coloro che si trovarono in quella tragica situazione per un puro gioco del destino: militari, impiegati, insegnanti di altre parti d’Italia che stavano in quelle regioni, a compiere il loro dovere, al momento del collasso italiano del 1943. Altri invece erano “autoctoni”, cioè italiani dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia che tali si sentivano e da italiani hanno reagito di fronte alla pretesa di annessione della loro patria alla Iugoslavia di Tito. Mostrarono in un modo o nell’altro il loro dissenso. O combattendo disperatamente nei reparti della RSI in un ultimo tentativo di difesa del territorio nazionale. O militando nella Resistenza antifascista, sotto le direttive dei locali Comitati italiani di liberazione nazionale, opponendosi quindi al disegno annessionistico del movimento partigiano iugoslavo.
Basta leggere gli insani proclami affissi sui muri delle città nei primi giorni di maggio del 1945, a Trieste, a Gorizia, a Pola, a Fiume, con i quali si imponeva il “coprifuoco” ai territori “liberati”! Segno evidente dell’ostilità incontrata. Era sufficiente il sospetto di non condividere l’annessione alla Iugoslavia, operata di fatto in spregio a ogni norma del diritto internazionale, per finire in foiba.
Ma a questa dimensione di identità nazionale da difendere nel momento dell’estrema minaccia e quindi con il sacrificio estremo della propria vita, si accompagnava assai spesso – specie nell’immaginario della gente più semplice – la dimensione di difesa dell’identità religiosa. Gli italiani dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia avevano testimoniato per oltre un secolo sotto l’Austria il loro attaccamento alla lingua e alla cultura dei padri. Perché avrebbero dovuto rinunciarvi di fronte alla minaccia iugoslava? Non vi rinunciarono e pagarono alcuni con la morte, altri con l’esilio o le persecuzioni in loco, la loro fermezza. Furono testimoni di italianità.
Ma anche alla loro fede religiosa gli istriani ci tenevano. E anche i dalmati e i fiumani. Gli ideali liberali del Risorgimento li avevano messi in difficoltà per la famosa “questione romana”, che l’Austria strumentalizzava per mettere i cattolici italiani contro quelli sloveni e croati. Questa difficoltà fu risolta con i Patti Lateranensi del 1929. Ma la nostra gente non aveva certo aspettato quei patti per frequentare i luoghi di culto e dare vocazioni alla Chiesa. Così come i nostri vescovi e i nostri parroci, quasi tutti autoctoni, non cessarono mai di rispettare la lingua e la cultura dei loro fedeli e conterranei sloveni e croati, Patti o non patti, e di proteggerli dal tentativo di assimilazione del regime fascista.
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La persecuzione religiosa fu invece uno dei tratti caratteristici dell’ondata di violenza messa in atto dal regime comunista di Tito ed ebbe un’influenza decisiva sulla decisione della gente più umile delle campagne di abbandonare le proprie case e le proprie attività affrontando le incognite dell’esodo. Era tutto un mondo, una civiltà che venivano messi a soqquadro.
La documentazione custodita negli archivi del MAE e di alcune nostre associazioni danno notizia diretta, attraverso i promemoria di insegnanti, medici, sacerdoti, inviati alle autorità italiane, civili e religiose, e anche alle autorità religiose croate, dell’abolizione di ogni festività (Pasqua, Natale, feste patronali, Ognissanti, ecc), del divieto di funzioni religiose e di somministrazione dei sacramenti, delle accuse ai parroci e ai religiosi di svolgere attività “antirivoluzionaria” solo perché continuavano a insegnare ai bambini il catechismo. Trentanove furono i sacerdoti, quasi tutti italiani e nativi del luogo, a perdere la vita per avere disobbedito alle intimazioni del Partito.
Particolarmente significativo è l’episodio narrato dalle maestre delle Elementari di Buie. Ricorrendo la festa del santo patrono ed essendo stato vietato a chicchessia di partecipare a qualsiasi rito celebrativo, si snodò nelle vie cittadine deserte un modesto corteo, formato da un prete con il Crocifisso e da due chierichetti (nònzoli) con la cotta. Passando la piccola processione davanti alle finestre della scuola i bambini corsero ad affacciarsi ai davanzali per guardare. Qualcuno magari si sarà anche fatto il segno della croce. Le maestre e gli alunni furono severamente puniti dalle autorità iugoslave di occupazione e di lì a qualche settimana gran parte delle insegnanti lasciò la Zona B per rifugiarsi a Trieste, amministrata allora dagli anglo-americani. Che questo clima di intimazioni si sia protratto per anni, dopo la fine della guerra, lo dimostra l’uccisione stessa e l’infoibamento di Don Bonifacio, avvenuti nel settembre del 1946.
Oggi finalmente, dopo un’istruttoria durata decenni per raccogliere elementi probanti da parte di alcuni valorosi sacerdoti istriani e dei parenti di Don Bonifacio, il suo martirio viene riconosciuto con un atto ufficiale di Benedetto XVI. La Chiesa non teme di proclamare i suoi Beati, vittime delle persecuzioni ideologiche del Novecento, dai campesinos messicani degli anni Trenta ai martiri periti nei lager nazisti ai religiosi e alle religiose torturati e uccisi nella guerra civile spagnola dai miliziani comunisti, alle migliaia di cattolici russi, ucraini, polacchi morti nel gulag sovietico per obbedienza al Vangelo.
Era tempo che anche il coraggio dei nostri sacerdoti, trucidati nelle nostre terre, venisse riconosciuto. E con esso quello dei loro confratelli croati e sloveni che rimasero al loro fianco, incuranti di quanto fosse rischioso frequentare i fedeli di lingua italiana, come se l’essere preti non fosse già una colpa sufficiente per quel regime, per i suoi comitati del popolo, le sue milizie popolari, le sue polizie segrete.