di PIETRO SPIRITO
«Sono le otto. Mi sono levata alle sette e non dormivo più dalle cinque. Ed è tutto per il pensare, che non dormo. C’è questo pensiero centrale del mio lavoro e poi tanti altri pensieri, altri lavori che mi si delineano dentro e ho allora l’impazienza di portare in porto questo, perché gli altri non mi sfuggano». Sono le prime righe, datate 18 ottobre 1944, del diario di Anita Pittoni, straordinario documento che si riteneva perduto, redatto dalla poetessa, scrittrice, editrice e stilista triestina fra l’autunno del ’44 e il gennaio del 1946. Un ”corpus” di oltre ottanta cartelle dattiloscritte, più altri fogli manoscritti, scoperti da Simone Volpato, docente di Storia del libro ed editore, assieme alle bozze autografe del libro ”Le Stagioni”, della silloge poetica ”Fermite con mi”, oltre a lettere a Giotti e Stuparich, fotografie inedite, racconti autografi mai pubblicati, e un libro d’arte in copia unica che segna l’inizio dell’attività letteraria della Pittoni, nata a Trieste nel 1901 e qui morta in solitudine al Lungodegenti nel 1982.
Tutto materiale che illumina di luce nuova un’intera stagione della cultura triestina a metà degli anni Quaranta, il periodo più drammatico della recente storia di Trieste, e che toglie definitivamente il velo a una vicenda delicata, poco indagata e poco tramandata: l’amore tra Anita Pittoni e Giani Stuparich. Una passione che proprio il diario ritrovato e le lettere permettono ora di leggere non solo come rapporto privato, ma anche come sofferto percorso esistenziale che mischia arte e vita, e si riverbera con forza sul lavoro letterario di due grandi intellettuali quali furono Anita Pittoni e Giani Stuparich. La stessa Pittoni fece circolare parti di questo diario (le inviò a Libero de Libero, Quarantotti Gambini, Miniussi, Barile, Baldacci), ne pubblicò alcuni stralci, e soprattutto lo utilizzò come «pozzo dove elaborare le emozioni in forma letteraria», per usare una definizione di Volpato, durante la stesura delle ”Stagioni”, e in seguito per altre opere.
Il diario ritrovato, intitolato dalla Pittoni ”Sei mesi. Diario (e racconti)” porta sul foglio di copertina una dedica a Stuparich: «A Giani. L’immenso del cielo tutto assorbe e trasmuta. A questa immensità anela l’anima. Ma verrà un giorno nel quale saremo fatti di cielo, nel cielo». La dedica è datata 24 aprile 1945, ma il diario inizia sei mesi prima, nell’ottobre del ’44, e la stesura andrà avanti anche dopo la data segnata sulla dedica.
Sono i giorni più bui di Trieste. La città è occupata dai nazisti, e solo pochi mesi prima, in agosto, Giani Stuparich, sua madre Gisela Gentili e la moglie Elody sono stati rinchiusi nella Risiera di San Sabba, per essere poi liberati pochi giorni dopo su intercessione diretta del vescovo Santin.
In quel periodo, nel suo appartamento nel palazzo all’angolo tra piazza della Borsa e via Cassa di Risparmio, Anita Pittoni riceve regolarmente la visita degli amici più cari: il poeta Virgilio Giotti con la moglie Nina, lo scrittore Pier Antonio Quarantotti Gambini, lo scultore Marcello Mascherini (”Masche”), il pittore Federico Righi e naturalmente Giani Stuparich. Quando Anita inizia a scrivere il suo diario, lei e Giani si conoscono già da qualche tempo. Si sono incontrati in estate, forse nel piccolo bar di via Ginnastica punto di ritrovo di Stuparich, Giotti, Umbro Apollonio, Linuccia Saba. Ma è proprio nell’autunno del ’44 che tra i due sboccia la passione.
Lui ha 53 anni, è sposato con Elody Oblath («una delle voci più silenziosamente forti della triestinità femminile» secondo la felice definizione di Roberto Curci e Gabriella Ziani), ha tre figli, è uno scrittore affermato, un eroe medaglia d’oro della prima guerra mondiale, e nella Trieste occupata dai nazisti è un punto di riferimento per il Cln Alta Italia. Lei, Anita, ha dieci anni di meno, è un’abile artigiana nella tessitura e decoratrice di reputazione nazionale, descritta da Roberto Damiani come «donna energica, volitiva, che ama essere protagonista ascoltata», capace di passare «con facilità stupefacente, e un po’ teatrale, dall’aggressività alla dolcezza».
Nel diario di Anita Pittoni Giani Stuparich acquista subito un rilievo di primo piano, mentre il racconto si apre su uno scenario triste: «C’è la guerra, da tanti anni. L’orologio della piazza batte le ore, come nel tempo di pace e fa proprio commozione, colpisce questa sua voce ignara». Sono tempi di ristrettezze, spesso in casa manca l’energia elettrica, scarseggiano i beni primari («bisogna essere pronti a tutto ma andrò a mangiare alla mensa di guerra, molto triste molta fame») e quando suona l’allarme si fugge nei ricoveri («Il rifugio è grande, diviso a stanzette, bianchi i muri, panconi all’ingiro e la luce elettrica . Caldo, nebbia, aliti, molta gente»).
In quei giorni Anita si dedica assiduamente alla scrittura («Lo scrivere, per me, è proprio come fare un tessuto») e in Giani trova non solo un amico, ma un ispiratore e un maestro. Frequenta anche la sua famiglia, dove su tutto e tutti incombe ancora lo spettro del fratello minore di Giani, Carlo, morto al fronte nel ’16. Scrive Anita il 26 ottobre 1944: «L’altra sera ho dormito da Giani nella stanzetta di Giancarlo , accanto alla camera della Mamma di Giani e di Elody; esse parlavano. cara signora Gisella, cara Elody, quanto mi avete cullato quella notte e così mi sono addormentata ».
Il rapporto tra Anita e la madre di Stuparich – una «madre risorgimentale» come la tratteggia Fulvio Senardi – è molto affettuoso («sento una tale affezione per la Signora Gisella»), ma presto la famiglia si irrigidisce («verso le quattro telefona Elody per dirmi che non vada a trovare oggi la Mamma di Giani. . Del resto hanno fatto di tutto per impedirci di trovarci»), mentre l’amicizia di Anita per Stuparich si è già trasformata in un più profondo e passionale sentimento. Sia dietro il gioco di specchi della letteratura («Sul nostro corpo io mi sciolgo come miele», recita un verso del 9 novembre), sia in passi più espliciti, il diario, giorno dopo giorno, mese dopo mese, racconta di un amore che invade come marea crescente l’esistenza di Anita Pittoni. Annota il 22 maggio del ’45: « perdo troppo tempo in pensieri amorosi. Come sono questi pensieri amorosi? In che cosa consistono? E perché nel farli le mie membra sono pervase da una dolce stanchezza, come un ansito d’attesa? Vibra la mia più intima carne e per quanto tenti di oppormi i miei passi mi portano verso il letto e amorosamente mi adagio e soggiaccio, qualunque sia la realtà, ai canti d’amore. E sono tutta dentro alle sue braccia e guardo i suoi occhi su di me, i suoi occhi diventano il cielo infinito e nella grande luce tutto mi si oscura ».
Nei documenti ritrovati da Simone Volpato, assieme al diario ci sono anche lettere e biglietti manoscritti che testimoniano intimità e condivisione del quotidiano («Giani, vado a prendere un po’ di spesa. Torno presto. Sono le dieci e quaranta»). Sono altre tracce di un sodalizio d’amore e d’arte che – dopo la separazione di Giani da Elody nel 1946 – durerà fino alla morte di Stuparich, nel 1961.
Ma il diario ricomparso di Anita Pittoni, zibaldone dove fermenta un continuo travaso alchemico tra biografia e letteratura, non racconta solo una grande storia d’amore, per altro molto ben rievocata nel 2007 da Claudio Grisancih nel monologo teatrale in dialetto ”Ste picie parole voio dirte stasera”, interpretato da Ariella Reggio.
Nelle pagine del diario gli incontri letterari, i personaggi, le profonde riflessioni sul senso dell’arte e della scrittura, gli appunti sui lavori in corso («Ho trovato il titolo del mio libro: ”Le Stagioni”», scrive il 12 febbraio ’45), le poesie, i giochi narrativi (i colloqui inventati con Katherine Mansfield e il suo amante D.H. Lawrence, con i quali Anita identifica la sua condizione e che ritroveremo in ”Passeggiata armata”, il suo ultimo libro), fanno rivivere in modo formidabile un capitolo fondamentale della recente storia culturale di Trieste.