di Mario Schiavato
Visita a un antico paese, risparmaiato ancora dalla cementificazione selvaggia
Rakalj e Rachele, Castelnuovo e Castelvecchio
È successo ancora una volta! Durante un altro dei nostri lunghi peregrinaggi per l’Istria, siamo capitati in un territorio che conoscevamo molto poco: sulla Val d’Arsa e il suo Canale, affacciati a quella costa – che per fortuna non è stata ancora rovinata dalla cementificazione – che conserva intatta la sua folta macchia mediterranea la quale, verdissima, si estende a perdita d’occhio dividendo baie e baiette con un mare terso davanti e una distesa, a mezza costa, di villaggi e villaggetti che conservano la vecchia architettura istriana, le case tirate su con la pietra a vista, la cisterna davanti e l’orto attorno, con la verdura d’accordo, ma anche con tanti fiori e piante di fichi e melograni. Peccato che, all’orizzonte, in una nube di polvere che si staglia nell’azzurro, si profilino gli edifici fumanti del cementificio di Valmazzinghi e, di fianco, le immense barriere di alcune cave di pietra.
Sì, proprio quasi per caso siamo arrivati in quel paesino che oggi si chiama Rakalj e che al tempo del dominio di Venezia (il fiume Arsia allora divideva l’Italia dalla Liburnia) era conosciuto come Castelnuovo, certo per distanziarlo dal vicino Castelvecchio o meglio Castel Rachele, un antico castelliere le cui poche rovine ancor oggi si possono ammirare, alte su un brullo colle vicino.
Una sommità coperta dai rovi
A dire la verità, al ritorno, non è che siamo stati capaci di trovare molte notizie su questo sito archeologico. Consultando una ricerca fatta più di un secolo fa da uno studioso inglese, il capitano R.F. Burton, cioè: Note intorno ai castellieri della penisola istriana egli ad un certo momento cita: La nostra terza escursione nelle vicinanze di Albona fu a Dubrova, praticamente in una grande casa di campagna appartenente ad una famiglia di ricchi possidenti. (…) Una passeggiata di circa 20 minuti a nord-est, sopra una sommità coperta dai soliti spini e rovi ci condusse alla contrada la cui parte settentrionale è oggi chiamata Stermaz ed invece la meridionale Stari-grad (Castelvecchio). Questo castelliere, che prospetta la bassa valle di Prodol nei tempi fu quasi distrutto, ed il solo suo punto interessante è la disposizione della cinta muraria irregolare adatta alle esigenze del terreno.
Muri secchi, mai fatti con malta…
Più innanzi lo studioso inglese sottolinea: Quando fu fondato e tracciato quel luogo di dimora, la cresta del colle fu evidentemente spianata rimanendo l’originario declivio a formare la base del parapetto. Sopra questa base erano collocate pietre calcaree che misuravano talvolta due piedi cubi, muri secchi mai fatti con malta o con pezzi lavorati o tagliati il che formava una rozza architettura di stile comune. (…) Furono qui rinvenuti due vasi di terra, uno dei quali a doppio manico mentre l’altro ad uno solo rozzamente cotto al forno è probabilmente di data anteriore”.
L’arte della ceramica
A questo proposito dobbiamo accennare alla ceramica, che fino a qualche tempo fa era un’attività artigianale molto praticata a Rakalj, e lo testimonia un forno ricostruito in paese, accanto alla casa natale di Mate Balota, nonché una delle tante sculture di Diminić, posta questa all’entrata del paese. Infatti, è ancora lo studioso inglese Burton a ricordarlo: I rottami di cotto sono un oggetto molto delicato in Istria. A Castel Rachele ne vengono fabbricati molti anche oggi e di forma veramente preistorica.
La signoria dei fratelli Loredan
Altre notizie molto interessanti su questa località le abbiamo trovate su “Terra d’Istria” di Luciano Lago: Il nome di Castelnuovo (oggi Rakalj) deriva, in epoca molto più tarda da un precedente castello, alquanto discosto, di cui si vedono ancora le tracce e che, nel Medioevo, si chiamava Rachele. Alterazione – secondo lo storico Kandler – di Arcellae, dove sono stati rinvenuti alcuni oggetti romani. Il borgo dominava, da un contrafforte dell’alta sponda, lo sbocco del pittoresco canale marittimo nel quale si getta il fiume Arsa, sul quale terminava il territorio nord-orientale dell’Italia antica. Nei pressi sorge la chiesuola di San Nicolò (sulla facciata si conserva ancora una piccola lapide con incisa la data 1395). Con la convenzione di Trento del 1535, che fissava i confini tra la Contea di Pisino e quelli Veneziani, Castelnuovo e la vicina Barbana, le meno significanti entità feudali della Val d’Arsa, passarono a Venezia. Un anno dopo, e precisamente il 23 settembre 1536, in seguito ad un esperimento d’asta, la signoria andò venduta ai fratelli Leonardo, Lorenzo e Francesco Loredan, della famiglia ducale di Santo Stefano. (Nel centro di Rakalj esiste ancora oggi una loro antica dimora con sulla facciata murato il loro stemma gentilizio recante la data 1637). Fu poi la stessa signoria suddivisa tra questi ed i Pisani ed infine passò ai Zustinian Lolin, ai quali rimase fino all’estinguersi del feudalesimo.
La salina nella baia di Pesacco
A proposito della nobile famiglia Loredan, sarà interessante a questo punto ricordare un loro tentativo piuttosto bizzarro, data la zona, che fu quello di piantare nella vicina baia di Pesacco, cioè in fondo al Canale d’Arsa, una salina, essendo appunto il sale un prodotto molto importante e caro a quei tempi. La produzione si iniziò alla fine del 1661 e continuò a intervalli fino alla metà del XVIII secolo. Sembra però che non fruttasse quanto i Loredan avevano sperato, in quanto già nel 1675 se ne liberarono e la dettero in affitto per pochi soldi.
La casa di Mate Balota
Abbiamo già ricordato che Rakalj (Castelnuovo) è il paese natale di Mijo Mirković, meglio conosciuto con lo pseudonimo di Mate Balota. Oggi la sua casa è stata adattata a Museo storico ed etnolografico, soprattutto per conservare le ceramiche che una volta, (lo abbiamo già ricordato) artigianalmente, venivano prodotte nel paese.
Mate Balota nacque in questo paesino il 28 settembre 1898 e morì a Zagabria il 17 febbraio 1963 e come sta scritto sulla lapide posta sulla sua tomba fu manovale, pescatore, marinaio, accademico, poeta, il primo abitante di Rakalj ad aver scritto più di ben 50 libri e che venne sepolto al suono delle care roženice.
Da manovale a letterato
Effettivamente la vita di questo bardo della poesia čakava non fu certamente facile, soprattutto nella prima infanzia. Di una famiglia molto povera, già a nove anni lo troviamo imbarcato su una piccola nave italiana che trasportava fino a Venezia la ghiaia macinata nelle vicine cave. Quindi fu manovale, minatore, ferroviere, tipografo, giornalista finché non riuscì a finire il ginnasio in Cecoslovacchia e quindi a diplomarsi all’Università di Francoforte. Le sue opere migliori rimangono la raccolta di poesie Dragi kamen, il romanzo Tjesna zemlja e la monografia Puna je Pula.
L’incontro con il vecchio minatore
Ancora qualche breve notizia sul paese di Rakalj (Castelnuovo): per la prima volta viene ricordato nel 1190 proprio per la produzione della ceramica. Nella chiesa barocca rifatta nel XVIII secolo su un altare del 1766 viene conservato un tabernacolo in pietra con due angeli risalente al 1425. Al centro del paese, davanti a un grande lodogno, c’è ancora la casa dei Loredan, sotto le cui arcate vengono conservati i tavoli di pietra di un antico mercato. Ed è stato proprio qui che abbiamo trovato un simpatico anzianotto, Petar, o come ci disse lui mejo el vecio Piero, ‘na volta minador a Arsia, cossa credè, mi ogni giorno andata e ritorno a piè!, il quale, su nostra insistenza, ci raccontò una delle tante leggende del paese.
Il drago e il guerriero
I conta che al tempo dei siori Loredan, nel castello di Rachele, mejo Castelvecio, viveva un famoso guerriero. A quei tempi un drago enorme con il corpo pieno di serpenti e con tanto di ali come un grande pipistrello, terrorizzava gli abitanti non solo di Rakalj, ma anche di Stermaz, di Prodol, fin de Barbana! Abitava in una profonda foiba e appena usciva ingoiava galline, capre, pecore, vacche, armenti interi e non disdegnava di papparsi anche gli uomini che tentavano di opporglisi e no’ parlemo dele bele putele. Risparmiava solo le suocere! Se vedi che le jera tropo amare… Il guerriero che era appena tornato da una guerra chissà dove in capo al mondo per i Venesiani e nella quale si era dimostrato coraggioso fino alla temerarietà, volle liberare questi nostri poveri paesi da tanto danno. Si vestì dunque della sua armatura e si recò davanti la foiba dove sapeva che il bestione era rintanato. E cosa fece? Infilò una bella pagnotta, fresca di cottura, sulla punta della sua spada e cominciò a stuzzicare quella belva maledetta. Cossa xe nato? Mentre il drago schiudeva la bocca per ingoiare l’offerta inaspettata, il guerriero gli infilò quella sua spadona nella gola fino al manico! Così trafitto, tra tuoni, fulmini e terremoti il drago morì. Ma una goccia del suo sangue velenoso purtroppo innavertitamente penetrò tra le maglie dell’armatura del valoroso eroe che, in pochi minuti, spirò anch’egli, povereto!, tra atroci tormenti. E oggi, se andate su a Rachele, mejo Castelvecio, davanti la grande muraglia troverete certamente le tracce di quel sangue maledetto!
Che dire? Caro vecio Piero, la leggenda che ci hai narrato è molto bella però noi le tracce di sangue di quel drago accanto alla grande muraglia ormai in disfacimento non ne abbiamo proprio trovate!