di Diego Zandel
Perché la guerra nei Balcani, perché questa continua conflittualità, perché il vicino è un avversario e non un partner? Sono le domande che Richard Swartz, corrispondente dall’Europa orientale per più di trent’anni del giornale svedese «Svenska Dagbladet», ha rivolto ai maggiori scrittori balcanici per un’antologia uscita originariamente in Germania nel 2007 e pubblicata quest’anno da Mondadori con il titolo L’altro accanto a noi.
Lo scrittore bosniaco Nenad Velickovic avrebbe risposto semplicemente: «Perché siamo nei Balcani». Ma, naturalmente, la risposta, come tutto il suo testo e quello degli altri suoi colleghi, sta a dimostrare, è più complessa. Un motivo però in particolare attraversa tutte le motivazioni, e cioè che «l’altro» è una nostra creazione, tanto più quanto, come nei Balcani, ma sarebbe meglio dire nei territori della ex Jugoslavia, il vicino è simile a noi. Bisogna perciò trovargli qualcosa che lo renda diverso, per poi farne un opposto, e quindi ancora un nemico. A riguardo Ismail Kadaré, scrive: «In un modo o nell’altro la paura degli ittiti di non trovare gli hurriti è stata spesso fatta propria dai popoli di tutto il globo. Si sa: se l’altro mancava, bisognava andarne alla ricerca. E se non lo si trovava, lo si inventava».
Da parte sua, il serbo Dragan Velikic’ nota come a essere più sanguinosamente coinvolti nella guerra cvile nella ex Jugoslavia siano stati popoli che sostanzialmente parlano la stessa lingua, mentre più defilati restarono paesi come la Slovenia e la Macedonia, in cui si parlavano lingue diverse. «La loro differente identità linguistica le rendeva da sempre l’altro, anche nel periodo in cui la Jugoslavia sembrava una e unita», scrive Velikic’. Su questo punto Nenad Velickovic’ ha speso gran parte del suo testo, affermando: «Nei Balcani degli anni Novanta la pulizia linguistica precedette il lavaggio dei cervelli. Si esonerò la lingua dalla necessità di trasmettere pensieri, riuscendo così a convincere la gente che essa esprimesse l’appartenenza (alla collettività) piuttosto che il pensiero. La si costrinse a sottomettersi alla nazione e allo Stato, soffocando sul nascere ogni forma di dissenso. Si strumentalizzò la lingua per suddividere gli individui dell’area jugoslava in noi e loro». Ciò ha portato a una lotta, ad esempio in Croazia contro i serbismi (ma avviene anche in Slovenia contro i serbismi e i croatismi). Velickovic’ ricorda, a riguardo, come a Zagabria, in mancanza del doppiaggio, vengano sottotitolati i film serbi, oppure «a Belgrado si ignora la lingua dei bosniaci».
Sulla incomprensione del conflitto, o meglio delle ragioni che sono state alla base di esso, testimoniano due scrittori, uno serbo e uno bosniaco, che da anni vivono negli Stati Uniti e scrivono le loro opere ormai in inglese. Parliamo rispettivamente del grande poeta, Premio Pulitzer 1990, Charles Simic’, nato a Belgrado nel 1938, ma negli Stati Uniti dal 1953, e di Aleksandar Hemon. Entrambi denunciano lo smarrimento, non disgiunto dal pregiudizio, riguardo alla conflitto interetnico. Hemon lo fa con una serie di aneddoti autobiografici, mentre Simic’, ha colto la palla al balzo della domanda di Swartz per esprimere la sua posizione non solo sul conflitto, ma sui Balcani che si porta dentro, prendendo a modello le parole che la nonna aveva detto riguardo Hitler, Mussolini e Stalin, e nel suo caso riferito al consenso di cui godeva Milosevic’ (e Tudijman): «Guardati dai cosiddetti grandi leader, e dall’euforia collettiva che suscitano». All’epoca del conflitto gli costò l’accusa di essere non solo antiserbo, ma al servizio della CIA. «Tra i nazionalisti», ha concluso dopo una serie di approfondimenti, «è più facile suscitare l’ammirazione con una foto in cui tagliano la gola a un bambino, piuttosto che marciando contro una guerra persa».
Accanto agli autori citati, ce ne sono altri, tutti interessanti e con prospettive diverse, alcune esemplificate con dei racconti, più che con dei testi di carattere saggistico e autobiografico. Sono sloveni (Drago Jancar e Marusa Krese), croati (Vladimir Arsenijevic’, Bora Cosic’ e Slavenka Drakulic’), serbi (David Albahari e Biljana Srbljanovic’), bosniaci (Miljenko Jergovic’, Sasa Stanisic’) kosovari (Beqe Cufai), albanesi (Luan Starova e Fatos Kongoli), il vojvodinese Laszlo Vegel e i bulgari Dimitrè Dinev e Vladimir Zarev.
Ma, a proposito dell’altro e di questa antologia, resta da sottolineare, in conclusione, un aspetto della storia recente che, per tutto il tempo della Jugoslavia e successivamente, con i nazionalismi imperanti, aveva sempre minimizzato la presenza storica degli italiani in Istria e a Fiume e quindi delle proporzioni dell’esodo. L’altro accanto a noi fa invece giustizia con due interventi, uno di Drago Jancar, che ricorda una sua gita a Portole (Oprtalj) dove dei 500 abitanti che aveva ne trova solo 17 per essere tutti andati via con l’esodo degli italiani, e Dragan Velikic’ che ricorda quando da Belgrado, dov’è nato nel 1953, si era trasferito, bambino, con la famiglia a Pola perché «all’epoca della mia infanzia, appartenenti a tutte le nazionalità dell’allora Jugoslavia si trasferirono in Istria riempiendo il vuoto demografico che si era creato con l’evacuazione della popolazione italiana dopo la Seconda guerra mondiale, o più precisamente dopo il 1947».Diciamo che, in questo caso, però, parliamo di un altro altro, quello che, non essendoci più, o ridotto al lumicino, non fa più paura.