di Gianna Duda Marinelli
Il 12 giugno 1945 i partigiani di Tito si ritiravano da Trieste dopo i tragici “40 giorni”.
Iniziava l’Esodo della stragrande maggioranza della popolazione dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia. La cancellazione di un popolo si svolgerà tra il 1945 ed il 1954 con l’ultima retifica del confine sui monti di Muggia (Trieste), tracciato in favore della Iugoslavia.
Il tragico spostamento di popolazione interesserà 350.000 cittadini che, ghettizzati nelle “riserve indiane” dei Campi Profughi o con metodi similari, sono stati vittime della politica italiana che li ha relegati nei più bassi ranghi della sudditanza rendendoli ininfluenti, perciò incapaci di difendersi.
Trascorsi 65 anni è doveroso ripercorrere il calvario di questi Italiani collocati nell’angolo più remoto dei ricordi che i più vorrebbero rimuovere.
Tra il 19 aprile ed il primo maggio 1945 le forze del Maresciallo Tito in corsa verso Occidente, occupavano un territorio di forma irregolare, dalla Dalmazia a Trieste.
Già nella seconda riunione dell’AVNOJ (Consiglio Antifascista di Liberazione Popolare della Jugoslavia) tenutosi tra il 29.11 ed il 4.12. 1943 venivano gettate le basi della Jugoslavia comunista. Era seguito l’accordo di Lissa del 16 (17).6.1944 tra Tito e Šubašič, questo veniva perfezionato e ratificato con la firma dell’accordo di Belgrado del 2.11.1944. Il primo ministro del governo in esilio a Londra era Hansard, mentre Šubašič diventava ministro di un governo di coalizione (comunisti – monarchici) guidato da Tito.
De facto e de jure veniva riconosciuto il governo partigiano della Jugoslavia ed il 29.11.1945 il re Alessandro rinunciava al trono. Il 2.12.1945 i comunisti proclamavano che era nata una Jugoslavia Federativa Democratica e nel 1946 quella della FNRJ (Federativna Narodna Republika Jugoslavija). W. Churchill dirigeva l’orchestra composta da soli due stonati musicisti, monarchia – comunismo. La partita si giocava saltando su due piatti della bilancia, su quello di Londra stava Ralph Stevenson ambasciatore presso il governo in esilio mentre Fitzroy MacLean era l’ambasciatore-soldato in collegamento con Tito (molte notizie le abbiamo grazie ai suoi scritti). Questa era stata la fangosa sequenza dei frettolosi ma necessari passi per legittimare il potere di Tito e per favorire la sua brama imperialistica nei confronti dell’Italia.
La tattica era stata evidente quando, nella sua corsa in avanti, il Maresciallo aveva lasciato alle spalle due importanti città come Fiume e Zagabria che saranno occupate appena il 5 maggio 1945. Lo scopo era quello di permettere ad Ante Pavelič, Poglavnik del regime croato ed ai suoi gerarchi di raggiungere la Carinzia dove il generale Alexander avrebbe sistemato i meno in vista in un Convento, gli altri sarebbero stati accolti a Roma ed infine sarebbero stati imbarcati a Genova per raggiungere l’Argentina.
In questo schematico racconto da cui emerge un intreccio eterogeneo di persone e di programmi non si individua né legittimità, né vincitori o vinti. L’albero coltivato dai più grandi politici del Novecento stava dando i suoi frutti. Era un frutteto particolare in esso non allignava l’albero dei così detti Diritti Umani. Alta politica o debolezza dell’Occidente impegnato a creare un effimero Stato balcanico, sostenuto dai dollari degli USA e gradito alla mediterranea Italia svolgeva la funzione di ammortizzatore.
I colpi che sarebbero pervenuti dall’URSS?
I progetti disegnati già nell’Ottocento venivano attuati lentamente ma inesorabilmente. Mentre a Lubiana ed a Zagabria si tramava, è probabile che i gruppi eversivi venissero controllati dai Servizi Segreti, purtroppo con una certa distrazione.
A Trieste nella centrale via Torrebianca n.21 avvenivano dei frequenti incontri di un gruppo di sacerdoti favorevoli al potere proletario. Tra di essi spiccava la figura di don Bozo Milanovic che assieme ai giudici Diminic e Motika erano stati degli indefessi attivisti sin dagli inizi del Novecento. Questo gruppetto già nel 1943 con il “Pazinska Odluka” (Decisione di Pisino 13.9.1943) chiedevano l’annessione dell’Istria alla Croazia. Lo stesso testo aggiornato dai collaboratori di Fiume e di Zagabria con l’indispensabile intervento di don Svetozar Ritig era stato tradotto in lingua inglese e nel 1946 (ben prima della firma del Trattato di Pace con l’Italia), veniva portato a a Londra dove è conservato presso la Biblioteca della London School Economic (L.S.E dep. Foreing History).
A Lubiana sul quotidiano “Iutro” del 5 dicembre 1944 venivano pubblicate le regole del buon comunista: “Si devono liquidare, tutti: i dirigenti appartenenti a correnti borghesi, i grandi possidenti, capitalisti, industriali e kulaki (seoski bogatas = contadini benestanti n.d.r.), i dirigenti i funzionari dei partiti borghesi, i dirigenti della guardia bianca, i dirigenti della guardia azzurra, i membri delle SS e della Gestapo, gli intellettuali, studenti e politici da caffè, sacerdoti che si sono dichiarati contro il proletariato.
Si devono incarcerare, tutti: gli ex ufficiali jugoslavi, i sacerdoti; le chiese rimarranno chiuse ma non si devono demolire. Le rappresaglie si possono eseguire soltanto su altri possedimenti ecclesiastici: bisogna costringere ad andarsene tutte le missioni militari degli Stati capitalistici e vietare ogni ulteriore colloquio; già ora devono venire segretamente portate via e consegnate tutte quelle persone che sono contrarie alla nostra lotta di liberazione.
Costoro devono venire liquidate soltanto se lo richiede la situazione interna o la situazione estera; non devono uscire i giornali borghesi.
Bisogna subito sequestrare gli apparecchi radiofonici; dei reparti devono occupare subito tutti gli uffici e tutte le importanti istituzioni vitali, nonché i centri nevralgici delle comunicazioni; tutte queste disposizioni dovranno essere eseguite il giorno che verrà fissato; tutte le liquidazioni dovranno venire eseguite da speciali reparti del Partito.”
Nel suo volume “Moje Uspomene” (Le mie memorie) pubblicato nel 1976 da don B. Milanovic, scriveva: “Il principio dell’autodeterminazione dei popoli fu, in guerra, uno degli scopi principali delle Nazioni Unite. Il popolo dell’Istria ha confermato col sangue e con sacrifici considerevoli la propria speranza e decisione, espressa tante volte, di essere unito con la sua nazione – madre jugoslava. … Per la prima volta nella storia, il popolo ha preso il timone nelle proprie mani. L’Istria è unita alla madre patria e gode dell’unione con il resto della Croazia. … Perciò l’Istria con Pula (sic) e tutta la Marca Giuliana con Trieste deve essere unita con la Jugoslavia”. E più avanti, “Con 48 firme si è chiusa la questione istriana: l’Istria è croata”.
Nel maggio 1945, nei territori italiani occupati dalle forze jugoslave veniva immediatamente imposta la collettivizzazione generale ed applicata la regola degli Slavi del Sud denominata “ prijava“ (notifica), ne era conseguita, la cancellazione della proprietà privata.
Tutti i cittadini venivano espropriati dei loro beni. La proprietà privata poteva essere conservata in misura riddottisima, era concesso possedere al massimo un bilocale più una cucina ed un servizio igienico, in campagna i contadini potevano avere 2 ettari di terreno coltivato e 2 a pascolo. Con l’immediata condanna a Nemico del Popolo agli imprenditori venivano confiscate tutte le proprietà, chi malauguratamente non era residente, di fatto non ha potuto mai più accedervi. L’immediato licenziamento degli impiegati pubblici, degli insegnanti e del personale della scuola, di fatto con l’ interdicere aqua et ignis, induceva all’esilio. Già dopo gli eventi conseguenti all’8 settembre 1943 i Dalmati avevano abbandonato la loro regione.
Con la firma del Trattato di Pace di Parigi del 10 febbraio 1947, fatta eccezione della Zona A (in pratica la città di Trieste) che dal 12 giugno 1945 veniva amministrata dal Governo Militare Alleato, la parte nord occidentale dell’Istria, denominata Zona B, l’Istria, Fiume, Zara e le isole di Lagosta e Pelagosa e la Dalmazia erano già state occupate dalle truppe del maresciallo Tito.
Il Trattato di Pace di Parigi, in vigore dal 16 settembre 1947 non veniva applicato regolarmente e nessuno ha mai controllato che lo fosse. Innanzi a tutto nell’art.19 – comma 4 si legge: “Lo Stato a cui il territorio è ceduto dovrà assicurare a tutte le persone i godimenti dei diritti dell’uomo e delle libertà fonfamentali, compresi quelli in materia di proprietà”. L’art. 79-comma 6-punto f esclude la possibilità di compensare il debito di guerra dell’Italia con i beni dei cittadini italiani situati nei territori ceduti a cui si dovevano essere applicate le disposizioni dell’allegato XIV”. A ciò si unisce la disattenzione della Jugoslavia dello Statuto delle Nazioni Unite di cui era membro, in esso era compresa la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, approvata dall’ONU rispettivamente il 9 e 10 dicembre 1948.
Alla fine del 1949, il Governo Italiano, con le proprietà dei connazionali stava pagando i danni di guerra all’appena nata Repubblica Federativa di Jugoslavia, così aveva inizio l’iniqua questione dei così detti “Beni abbandonati”. Da qui le tante promesse e le miserevoli concessioni dei così detti indennizzi elargiti dagli ingenerosi Governi Italiani, tale situazione perdura tutt’ora e da quanto si può presagire, durerà fino all’estinzione dell’ultimo erede.
Trascorsi cinquant’anni, nel 2000, la situazione stagnava. I rappresentanti delle Associazioni degli Esuli ed il parallelo mondo politico si barcamenavano tra incontri e pubblicazioni. Unilateralmente mi sembrò fosse giunto il momento di sondare quanto l’Europa ed in particolare la Corte Europea dei Diritti Umani di Strasburgo fosse interessata a risolvere la questione. Dei cittadini politicamente ininfluenti, scomodi, dimenticati erano celati da una fitta coltre di nebbia che preludeva il loro oblio. L’iniziativa non mirava né al risveglio né al miracolo, si poteva attendere solo una nuova sconfitta ma per dimostrare il vuoto della Corte bisognava raccogliere le prove.
Tra il 2000 ed il 2004 erano stati presentati 50 ricorsi che la Cancelleria aveva giudicato tutti “presentati correttamente”.
Si era trattato di compilare un formulario che ero riuscita ad avere con la mediazione di un amico australiano ed un funzionario di Strasburgo mosso a compassione. Le parti più salienti erano: Procura, una parte generale comune a tutti i doglianti, Esposizione dei fatti, Esposizione della o delle violazioni della Convenzione lamentate dal ricorrente nonché delle relative argomentazioni, Esposizione relativa ai requisiti di cui all’Articolo 35 § 1, Esposizione relativa all’oggetto, Altre istanze internazionali investite della causa, Documenti allegati” (solo fotocopie) Dati del Ricorrente, L’Altra Parte contraente (il nome dello Stato contro il quale è diretto il ricorso).
Risaltava immediatamente che la parte più debole dei “ricorsi” era costituita dall’art. 35 § 3: “la Corte non può essere adita se non dopo l’esaurimento delle vie del ricorso interne, come inteso secondo i principi di diritto internazionale generalmente riconosciuti ed entro un periodo di 6 mesi a partire dalla data della decisione interna definitiva”. In pratica veniva chiesto l’impossibile, consistente in un documento che comprovasse la cassazione dal più alto grado del Giudizio nello Stato contro cui si era agito in quanto detentore del bene di cui si chiedeva la restituzione.
Questo era il primo intoppo, ma gli ideatori della “Convenzione Europea” avevano predisposto un ulteriore sbarramento, La Corte non trattava “doglianze” su fatti accaduti prima della data della firma della “Convenzione Europea” di qual si voglia Stato contro cui si voleva agire. I cittadini italiani o ex italiani perché esodati in altri continenti dovevano citare la Repubblica di Slovenia o di Croazia, ma… la prima aveva ratificato la Convenzione il 28 giugno 1994, la seconda il 5 novembre 1997. Di fatto la Corte Europea dei Diritti Umani cancellava i 50 anni di dittatura del proletariato nazionalista Titino perciò le doglianze dei cittadini vittime di quel regime non potevano venire accolte.
I risultati non si fecero attendere ed esaminati i ricorsi, il Comitato formato da tre giudici li aveva dichiarati irricevibili, non risultando soddisfatte le condizioni fissate dagli articoli 34 o 35 della Convenzione. Le parole usate per concludere i rifiuti, se possibile, erano irrorate di una profonda disarmante disumanità: “La decisione della Corte è definitiva e non può essere oggetto di ricorsi davanti alla Corte compresa la Grande Camera, o ad altri organi. La Cancelleria della Corte non sarà in grado di fornirLe altre precisazioni sulle deliberazioni assunte da parte del Comitato e nemmeno di rispondere alle eventuali lettere che Lei potrebbe inviare riguardo alla decisione resa nel presente ricorso. Lei non riceverà ulteriori documenti della Corte in relazione a tale decisione e, conformemente alle direttive della Corte, il Suo fascicolo verrà distrutto entro un anno a far data dall’avvio della presente lettera”.
Il Comitato dei tre giudici di fatto bloccava l’accesso alla Camera dei 7 giudici ed alla Grande Camera composta da 17 giudici.
Percorrendo un’altra strada, piuttosto dispendiosa, chi aveva scelto la via legale in Slovenia o in Croazia, arrivati al secondo grado di giudizio, invece di accedere al terzo grado, lontanamente paragonabile alla nostra Cassazione, retrocedeva al primo grado denominato Komunalni Sud (Giudizio Comunale). Da cui non è possibile risalire.
Il ministro F. Frattini nella trasmissione “Porta a porta” del 9 c.m. in cui si ricordava il 10 giugno 1940, data dell’entrata in guerra dell’Italia, dall’alto della sua fronte sentenziava, convintissimo, “L’Italia paga un prezzo giusto”. Dopo questa dotta lezione di uno dei nostri ministri, dovremmo ringraziare di essere stati “giustamente derubati” e per poterlo fare noi, Giuliani, Fiumani e Dalmati, avendo dato solo il “giusto” il nostro ministro degli Esteri, esperto di Storia Balcanica, si aspetta da noi qualche cosa di più ma “Abbiamo già dato”.
Mentre giungevano a Strasburgo i ricorsi contro la Slovenia e la Croazia, gli inviati delle due giovani Repubbliche vigilavano.
Il 2 gennaio 2003 nelle prime ore di una mattina di gelo e neve, il direttore della TV di Stato croata mi telefonava per chiedere se ero disposta a farmi intervistare. Dopo circa quattro ore arrivarono da Zagabria un’intervistatrice e due tecnici. Era solo l’inizio, da quel giorno, per 3 mesi si erano susseguite le interviste alle Radio ed alle TV Slovene e Croate, sui giornali venivano pubblicate quelle dei ricorrenti raggiunti a Trieste, Roma e Firenze. In particolare il “Vecernji list” (Corriere della sera) del 2 gennaio 2003 affermava che i ricorsi avevano aperto “il vaso di Pandora” ed il settimanale “Globus” dedicava all’iniziativa 3 pagine. I pareri di M. Tremul e F. Radin (Comunità degli Italiani dell’Istria e di Fiume, sorta per volontà di Tito) erano diplomaticamente favorevoli.
In Italia la notizia veniva data solo dal quotidiano “Il Piccolo”. Poi il silenzio, i Ponzio Pilato di turno non si erano lavate le mani pur di non affrontare questo scabroso argomento. Il tentativo di dimostrare ed è stato dimostrato, è che una Corte che non ha un “Archivio” non è destinata ad avere una Storia. Per i Posteri, se lo vorranno, rimarranno i nostri archivi privati. Oltre al ministro Franco Frattini alla trasmissione Porta a Porta di mercoledì 9 giugno, c’era il prof. Lucio Villari dell’Università di Roma 3 che ghignante, giudicava Giorgio Albertazzi che con estrema pacatezza accennava alle sue esperienze della sua prima giovinezza nella RSI ed alla sua famiglia.
L’ora era molto tarda, Bruno Vespa appariva visibilmente imbarazzato.
Come una gran parte di ascoltatori.