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La famiglia Antonelli tra Auschwitz e Isola Calva (Voce del Popolo 25 gen13)

Il carcere dell’Isola Calva (Goli Otok) e il campo di concentramento di Auschwitz, due realtà completamente diverse, difficilmente accostabili. Il primo strumento di indottrinamento e di rieducazione politica del regime totalitario jugoslavo per gli oppositori a Tito, il secondo terrificante macchina nazista con la quale attuare il progetto della “soluzione finale del problema ebraico”, ma dove trovarono la morte anche molte altre categorie di internati. E sono anche due esempi di follia umana che colpirono la famiglia Antonelli di Fiume: Gino, internato a Goli Otok, e Nerina, riuscita a sopravvivere ad Auschwitz. Sono i genitori della connazionale fiumana dott.ssa Licia Antonelli che, in occasione del Giorno della Memoria, ricorrenza che viene celebrata a livello internazionale il 27 gennaio, ci ha raccontato della complessa realtà carceraria subita dalla sua famiglia, di come venne a sapere della detenzione dei genitori e di come tutto influì su di lei.

 

“Mio padre, Gino Antonelli, nativo di Aquilea – esordisce – giunse a Fiume nel 1946, assieme ad altri gruppi di giovani italiani. Erano tutti attratti dalla ‘primavera socialista’ per la quale desideravano costruire un futuro migliore e tutti loro avevano militato nelle file partigiane, a stretto contatto con i commilitoni sloveni e croati. Le idee di mio padre erano legate a un socialismo internazionale e dal suo arrivo a Fiume fu subito attivo politicamente, soprattutto nell’ex Silurificio, all’epoca fabbrica Torpedo, dove lavorava. Poi, con la rottura tra Tito e Stalin e il caso del Cominform, le cose si complicarono, tanto che venne spedito nel carcere di Isola Calva”.

 

Suo padre le ha mai spiegato per quale delitto verbale era stato processato e condannato?


“Non credo che mio padre fosse stato incarcerato per aver detto qualcosa contro la Jugoslavia o contro Tito. Fu semplicemente accusato di malversazioni. In pratica gli fu imputato di aver derubato la cassa sindacale della Torpedo, una calunnia. È invece ben noto che molti finirono a Goli Otok per il semplice fatto di essere italiani, persone con idee progressiste, di madre lingua e cultura italiana, attive politicamente e dotate di un certo livello d’istruzione. Era questo il loro vero e unico crimine. Erano individui scomodi alle autorità politiche. Il suo processo, come del resto quelli di tutti gli altri, fu una vera e propria farsa, una pura formalità, in quanto tutto era già predisposto e nessuno aveva diritto alla difesa. Non gli diedero alcun documento scritto e fu condannato a diversi mesi di carcere. Mio padre faceva parte del primo gruppo di italiani, istriani e fiumani che furono mandati sull’isola. E in un certo senso ebbero fortuna, soprattutto in confronto ai gruppi successivi che subirono un trattamento punitivo molto più brutale. Il suo gruppo ha praticamente costruito il carcere sull’Isola Calva. Siccome vi facevano parte persone con un certo livello professionale, furono incaricati di costruire l’intera infrastruttura. Mio padre era elettricista e fu incaricato di occuparsi della rete elettrica. Ciò non toglie che fosse un detenuto. In seguito venne mandato a fare il servizio militare a Tuzla, dove ebbe il suo primo contatto con il mondo islamico, completamente diverso da quello a cui era abituato. Una volta ritornato riuscì a rifarsi una vita, tanto che dopo poco tempo si sposò con mia madre, Nerina Faraguna, dalla cui unione sono nata io”.

 

Si è mai lamento delle angherie subite sull’isola di Goli Otok?


“Più che delle sofferenze subite preferiva raccontare delle tante persone che aveva conosciuto in carcere. Si ricordava anche di coloro che a forza di botte e violenze psicologiche cedevano, abiurando tutto. E anche di quelli che nonostante tutti i soprusi subiti, tennero duro fino alla fine, pagando spesso con la propria vita”.

Anche sua madre subì il duro regime delle carceri?


Fu incarcerata ad Auschwitz quale prigioniera politica. Faceva il corriere per i partigiani e in seguito a una ‘soffiata’ fu presa dai tedeschi nell’estate del ’44 e liberata il 9 maggio ’45. Dopo un mese di viaggio ritornò finalmente a casa. Trascorse quegli anni terribili e quelli che seguirono con molta dignità. Dato che aveva aderito alla resistenza, dopo la guerra le venne offerto subito un posto importante, quello di direttrice del Centro per i bambini di Fiume. Tuttavia il giorno che il suo futuro marito, Gino Antonelli (all’epoca erano ancora fidanzati) venne condannato a Goli, lei perse immediatamente il lavoro”.

 

Come si è accostata alla tragedia di sua madre?


“Tento di evitare le manifestazioni, filmati, documentari e mostre che vengono organizzate per il Giorno della Memoria per il semplice motivo che mi emoziono troppo. Rivedere tutto quello che mia madre mi ha raccontato nel corso degli anni è troppo doloroso. Anche lei, in tutta questa tragedia si considerava fortunata. Poiché era giovane venne spedita a lavorare in fabbrica. Non veniva trattata meglio, ma era lasciata in vita perché buona per lavorare”.

 

Come venne a sapere della loro detenzione?


“Fin da bambina i miei mi raccontavano della guerra e di cosa accadde. Non nascondevano le loro storie. Spesso la nostra casa era frequentata dagli amici di papà, ex carcerati di Goli Otok. Mi colpiva sempre il tono sottovoce, quasi furtivo, con cui parlavano. Avevano la costante fobia che qualcuno li ascoltasse. Ricordo poi che da piccola provavo tanta curiosità nell’osservare il tatuaggio di mia madre sull’avambraccio sinistro. All’epoca le donne non si tatuavano, e averne uno era completamente assurdo. All’inizio non capivo neanche che cosa fosse, poi me lo spiegò. Era il suo numero di detenzione, 88906, con il quale veniva indentificata dalle guardie del campo. Conservo ancora il triangolo rosso con sopra scritto IT quale paese d’origine, simbolo che doveva portare a sinistra, sul petto, quale segno di riconoscimento”.

 

Come figlia di un carcerato dell’Isola Calva, ha portato mai il marchio di tale tragedia nella nostra società?


“Nel corso dell’infanzia mai. Se qualcosa c’è stato, risale a quando ho iniziato a cercare lavoro. Io non me ne rendevo conto, però si notava una certa ‘difficoltà’. Dopo Goli, mio padre non è stato mai più politicamente attivo. Nonostante tutto è riuscito a diventare capo di una grande officina meccanica a Fiume. Anche se a casa nostra queste esperienze tragiche erano relegate nel dimenticatoio, mio padre usava dirmi ‘fai attenzione che da qualche parte sta scritto di chi sei figlia’”.

 

Pensa che i suoi genitori abbiano portato rancore verso gli aguzzini?


“Mia madre ha portato rancore verso la Germania. In realtà lei non riusciva a capacitarsi del senso di attaccamento che vigeva in tutti i popoli dell’ex Jugoslavia per la Germania. Gli altri popoli d’Europa hanno perdonato il popolo tedesco, ma si sono sempre rifiutati di dimenticare”.

 

I suoi hanno mai visitato i luoghi di queste tragedie?


“Mia madre non ha voluto ritornarci. Sarebbe stato troppo doloroso perché vi aveva lasciato troppe conoscenze e persone amiche che non sono mai più tornate. Stessa cosa anche per mio padre. Una volta finita la detenzione, ha chiuso per sempre il capitolo Goli Otok”.

 

(fonte “la Voce del Popolo” 25 gennaio 2013)

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