Alla fine dello scorso anno, su iniziativa della “Famiglia Umaghese”, associazione aderente all’Unione degli Istriani di Trieste, è uscito il volumetto “Piccolo dizionario del dialetto umaghese”, che in una sessantina di pagine annota la parlata della località istriana. Nella cittadina costiera si parlava e si continua a comunicare, sebbene il vernacolo sia utilizzato in minore misura rispetto al passato, in un dialetto di matrice veneta, le cui origini si perdono nella notte dei tempi e preesistente alla dominazione della Serenissima. La sua valorizzazione, anche attraverso l’edizione di opere che registrino e trasmettano quella che è parte integrante della collettività umaghese – nel caso specifico –, di ieri e di oggi, residente o sradicata dal suo contesto naturale, è un’operazione intelligente e di notevole valenza.
La compilazione, che non ha alcuna pretesa linguistica, come si avverte, è nata dal desiderio di far conoscere ai più giovani “(…) che non hanno avuto la possibilità di assaporarla de auditu, l’armonia del dialetto parlato da nonni e bisnonni”. Il recupero delle caratteristiche tipiche della popolazione di un determinato territorio, e il dialetto occupa indubbiamente un posto di rilievo, è importante, specie in questo momento storico, poiché, sotto l’effetto della globalizzazione, le identità locali rischiano di scomparire, laddove non esista una chiara e concreta politica culturale, concepita su solide basi scientifiche.
“Risulta suggestivo e determinante l’aver individuato e raccolto tale quantità di lemmi poiché ciò comporta un tentativo di conservazione di una parlata oggi chiaramente in disuso sia per la permanenza in loco molto ridotta di parlanti originari – e di ciò è causa il massiccio esodo del dopoguerra che ha coinvolto, come in tutto il resto dell’Istria, anche, e forse in misura maggiore che altrove, gli umaghesi autoctoni – che per la dispersione forzata che gli esuli hanno avuto non solo in Italia, ma anche negli angoli più remoti del mondo. Nello sradicamento dall’humus originario sta il dramma della più difficoltosa conservazione di usi, costumi, tradizioni ed, anche, della parlata”, evidenzia Piero Delbello nella presentazione.
I profondi cambiamenti che hanno investito l’Istria e l’assottigliamento della presenza italiana, la prima che utilizzava il dialetto romanzo nella vita quotidiana, dopo un esodo che ha letteralmente spopolato anche quell’angolo della regione, e la modernizzazione che ha investito tutto e tutti, con il conseguente declino di alcune attività tradizionali, hanno inevitabilmente contribuito al depauperamento della parlata locale.
Quest’ultima, però, ha resistito grazie soprattutto, alla campagna, il contesto cioè in cui il dialetto istroveneto si è conservato maggiormente e quindi ha continuato a svolgere quel ruolo di vettore comunicativo; ed essere ancora quella lingua franca, usata dalle varie anime indigene, a prescindere dalla loro appartenenza nazionale e dalla lingua madre. Proprio così, esso ebbe, difatti, la forza di unire. Inoltre, il dialetto romanzo non è scomparso anche grazie alla componente slava autoctona.
Chi non conosce le peculiarità dell’Istria considererà quest’asserzione un paradosso, ma non lo è. Quel dialetto stesso è tuttora riconosciuto come parte integrante del suo essere, nella cui parlata sono entrati centinaia di termini e di espressioni. Taluni lemmi, andati magari in disuso presso la popolazione italiana, lì persistono. Possiamo considerarla la testimonianza più genuina e verace della penisola in cui viviamo. Questo è un aspetto che meriterebbe maggiore attenzione e ci aiuterebbe a comprendere le dinamiche che hanno permesso la conservazione di una lingua profondamente abbarbicata a questa terra.
In più, rappresenta uno spunto per una riflessione che superi la questione dei nazionalismi contrapposti. Se i funesti accadimenti del secondo dopoguerra smembrarono la comunità italiana, disperdendola ai quattro venti, riducendola in loco a sparuta minoranza, il dialetto non è venuto meno. La situazione non è proprio idilliaca; al tempo stesso, però, non vogliamo trasmettere considerazioni catastrofiche. La parlata locale è ancora fluida, è viva, non si è cristallizzata, perciò è soggetta a influenze, e, cosa ancora più importante, viene trasmessa alle nuove generazioni.
È proprio nel Buiese e nell’Umaghese che il vernacolo non può essere considerato una sorta di “merce rara”; i giovani, compresi gli adolescenti, lo parlano, non solo con i propri nonni, ma anche tra di loro in comitiva. E questo è più che positivo. Anzi, il dialetto ha saputo attrarre anche persone di diversa provenienza, le quali, alcune quasi perfettamente altre meno, hanno assorbito il dialetto – sovente dovendo acquisirlo perché era l’unico modo per relazionarsi con gli abitanti locali – e oggi lo parlano senza problemi.
Sono i corsi e i ricorsi della storia. D’altra parte qualcosa di simile si era verificato anche tra il XVI e il XVII secolo, quando la zona fu interessata dalla colonizzazione veneziana tesa a ripopolare le aree pressoché spopolate a seguito dei flagelli delle malattie. Malgrado l’arrivo di genti provenienti da vari contesti, in breve tempo queste s’integrarono alla nuova realtà e acquisirono la parlata istroveneta.
Nell’introduzione, firmata da Marino Bonifacio, attento studioso di onomastica cognominale, nonché competente conoscitore dei dialetti romanzi istriani, autore di importanti studi sull’argomento, questi spiega alcune caratteristiche della parlata umaghese. Essa, pur avendo subìto l’influenza secolare del veneziano, conserva ancora innumerevoli caratteri propri, sebbene il vocalismo umaghese segua il modello veneziano. Lo studioso piranese avverte ancora che “il colpo di grazia ai dialetti veneto-istriani con vocalismo storico di tipo veneto e toscano, viene naturalmente dato dal triestino, unico dialetto italiano a non avere la distinzione vocalica tra e/o chiuse e aperte (…)”.
Nel dizionario, compilato da Luciana Melon, comunque, ritroviamo non poche locuzioni di chiara derivazione istriana, vale a dire non comuni al triestino o ad altri dialetti dell’area veneta. Si tratta di peculiarità documentate, che testimoniano l’esistenza di differenze che oggi, in molti casi, difficilmente si distinguono. Bonifacio evidenzia che “(…) l’italiano schizza (comincia a cadere qualche schizza di pioggia) detto a Trieste schiza, a Umago diventa schìssola o schissoléa con la desinenza –éa, come a Pirano (ove già nel 1456 abbiamo ordinéa “(egli) ordina”), un tempo comune a tutti i dialetti istriani”.
La pubblicazione è corredata da foto d’epoca e dalle vignette di Paolo Marani, artista triestino noto al pubblico soprattutto per i suoi disegni, proposti in chiave satirica, pubblicati su “Il Piccolo”, quotidiano con il quale collabora da più di vent’anni. Questi ha sviluppato delle simpatiche immagini su alcuni pensieri e modi di dire tipici.
(fonte “la Voce del Popolo” 24 luglio 2012)