La frontiera adriatica, che è al centro delle giornate di formazione per docenti della terza Scuola Estiva organizzata dal Tavolo di Lavoro Ministero dell’Istruzione e del Merito – Associazioni degli esuli istriani, fiumani e dalmati, divenne nel corso della Prima guerra mondiale fronte militare e luogo di combattimenti. Il dopoguerra avrebbe quindi portato alla nascita di una memoria e di una memorialistica del conflitto che ancora oggi presenta i suoi segni materiali ed immateriali, come ha illustrato nella sua relazione il Prof. Fabio Todero.
Ricercatore dell’Istituto Regionale per la Storia della Resistenza e dell’Età Contemporanea del Friuli Venezia Giulia, Todero è autore di molteplici studi non solo sulle dinamiche del conflitto, ma anche su fenomeni collaterali, primo fra tutti il volontarismo degli irredentisti e la memoria della Grande guerra appunto. Si tratta di un conflitto che coinvolse artisti, letterati e musicisti che poi nelle loro opere hanno lasciato traccia di quanto vissuto nell’orrore dei campi di battaglia, i quali sono poi diventati luoghi della memoria. Negli anni seguenti al conflitto la memoria si sarebbe concretizzata nei cimiteri monumentali dei caduti, nelle lapidi e nei monumenti che in ogni località commemoravano i concittadini caduti in guerra e sarebbero stati realizzati anche luoghi esclusivamente deputati a tale scopo come i Parchi della Rimembranza, ove avrebbe trovato compimento il culto del soldato caduto.
«Tuttavia la Venezia Giulia conservò una memoria divisa – ha precisato Todero – tra chi essendo suddito austro-ungarico andò a combattere per l’imperial-regio esercito e chi sentì più forte il richiamo della propria identità nazionale, esfiltrò in Italia e si arruolò nel Regio Esercito: si tratta di lacerazioni che spaccarono anche le famiglie. Per chi combatté nel 97° reggimento asburgico, la Galizia diventò un nome impresso nella memoria, così come per tantissimi istriani Wagna sarebbe diventato un luogo immateriale della memoria». Wagna fu la principale delle località in cui gli austriaci allestirono le baraccopoli dove concentrarono in condizioni precarie gli italiani che vivevano a ridosso della base di Pola e che dopo il 24 maggio 1915 vennero considerati possibili traditori: ecco la prima traumatica esperienza di profuganza per gli istriani.
Per un paio d’anni dopo il 4 novembre 1918 nella Venezia Giulia ci fu un Governatorato militare in attesa della definizione del nuovo confine ed in quel periodo vi furono solenni cerimonie per il rientro nelle località di origine delle salme dei volontari irredenti caduti in battaglia e le prime scolaresche venivano accompagnate nei luoghi più significativi del vecchio fronte dell’Isonzo. Lì ben presto sarebbero sorti cimiteri militari che avrebbero poi assunto una forma monumentale per impulso del regime fascista che nel 1938, in occasione del ventennale della vittoria, inaugurò fra l’altro l’imponente scalinata del Sacrario di Redipuglia. Ma era stato allestito anche il Cimitero degli Eroi ad Aquileia, ove Maria Bergamas avrebbe compiuto la straziante scelta della salma che sarebbe stata sepolta nel sacello del Milite Ignoto a Roma dopo aver attraversato in treno tutta Italia, venendo ovunque accolta con grande commozione. La Regione autonoma Friuli Venezia Giulia ha individuato con un sito internet i Percorsi della Grande Guerra che si snodano dalle Alpi Carniche alle foci del Timavo, mentre l’IRSREC ha elaborato un percorso sulle orme dell’irredentismo e della Grande Guerra in provincia di Trieste.
È iniziata con una citazione di Milan Kundera, scomparso nella giornata di ieri, la relazione tenuta dal Prof. Stefano Bruno Galli dell’Università Statale di Milano: «Nel 1967 allorchè era Presidente dell’Associazione degli Scrittori Cecoslovacchi Kundera contribuì ad aprire la strada verso la Primavera di Praga ricordando che nella mutevolezza della storia e dei confini la Mitteleuropa restava un punto di riferimento per l’Europa centro-orientale, una porzione di continente che in un contributo del 1984 avrebbe definito “rapita” all’Occidente. Ed è nel contesto della Mitteleuropa che si manifestò l’irredentismo italiano». L’irredentismo fu la risposta della comunità italiana, ancora sottoposta all’Impero asburgico, al risveglio delle nazionalità suscitato dal compromesso austro-ungarico del 1866, con cui la monarchia danubiana assumeva la denominazione di Impero austro-ungarico, lasciando con l’amaro in bocca altri gruppi nazionali che reclamavano riconoscimenti della propria specificità. A parziale consolazione una legge del dicembre 1867 avrebbe riconosciuto a tutti i gruppi nazionali il diritto di coltivare e preservare le proprie nazionalità e lingua, trovando peraltro rappresentanza nel sistema delle diete, cioè parlamenti locali in cui si sarebbe animato il confronto politico tra istanze della monarchia e nazionali. «La comunità italiana era attratta dal Regno d’Italia sorto nel 1861 – ha spiegato Galli – e dopo le guerre risorgimentali era diventata una minoranza ben poco significativa: le cessioni di Lombardia (1859) e Veneto (1866) avevano portato il numero degli italiani da 5 milioni e mezzo a 600.000 circa e per giunta, come ha evidenziato Angelo Ara, privi di continuità territoriale poiché separati tra trentini e giuliani, le cui rivendicazioni ben presto sarebbero passate in secondo piano con l’adesione dell’Italia alla Triplice Alleanza con Germania e Austria-Ungheria appunto».
D’altro canto il percorso riunificatore attuato dai Savoia aveva destato perplessità anche fra gli italiani stessi: Carlo Cattaneo denunciò la preponderanza piemontese rispetto alla Lombardia e, auspicando libertà politica e federalismo, trovò poco soddisfacente passare da una dominazione monarchica all’altra, mentre l’irredentista trentino Scipio Sighele contestava l’accentramento sabaudo in un’Italia ricca di differenze culturali e sociali. Le stesse anime dell’irredentismo e del socialismo italofono si svilupparono in contesti differenti: agricolo in Trentino, imprenditoriale a Trieste. «Nelle campagne trentine trovò maggiori consensi il popolare Alcide De Gasperi – ha spiegato Galli – mentre il socialista Cesare Battisti ebbe seguito nei centri industriali di Trento e Rovereto, da cui partì con una campagna propagandistica improntata al delenda Austria, ponendosi così in contrasto con la vocazione federalista dei principali partiti socialisti della compagine imperiale, i quali si erano strutturati secondo i gruppi nazionali. La composizione multinazionale di Trieste aveva fatto diventare il principale porto dell’Impero la roccaforte dei socialisti internazionalisti, che accolsero con diffidenza Battisti nelle occasioni in cui l’amico Antonio Gerin lo aveva invitato a tenere comizi. Non a caso la campagna interventista che il geografo trentino svolgerà nell’anteguerra non farà riferimenti a Trieste».
Stefano Pilotto, docente di Storia delle Relazioni Internazionali al MIB di Trieste, ha quindi svolto un ampio e dettagliato excursus storico sulla “complessa vicenda del confine orientale italiano”, come dice esplicitamente la Legge 92/2004 istitutiva del Giorno del Ricordo. Il suo approccio geopolitico ha consentito di cogliere gli interessi delle grandi potenze che si sono trovati a confliggere in area adriatica ed ha poi focalizzato alcune peculiarità del dopoguerra giuliano: «Ho qui davanti a me insegnanti provenienti da tutta Italia, per voi è ovvio considerare che la Seconda guerra mondiale finisca il 25 aprile 1945. Nelle province italiane del confine orientale non è così. Il successivo primo maggio iniziano i 40 giorni di occupazione jugoslava che termineranno solamente su pressione angloamericana con gli accordi di Belgrado che definirono una partizione lungo la Linea Morgan, dal nome dell’ufficiale britannico che la propose. In attesa del confine che sarebbe stato definito in sede di Conferenza di Pace, il 12 giugno si può dire che la guerra sia finita a Trieste, Gorizia e Pola, ove iniziava l’amministrazione militare angloamericana, mentre il resto del territorio rimaneva sotto il regime di terrore jugoslavo»
Altrettanto prezioso è stato il riferimento alla strage di Vergarolla, avvenuta il 18 agosto 1946, con oltre un centinaio di vittime, tra le quali tantissimi bambini: la strage più sanguinosa nella storia dell’Italia repubblicana consumatasi una domenica in cui intere famiglie assistevano su una spiaggia ad una manifestazione sportiva, ignari che un mucchio di mine disinnescate stava per essere fatto esplodere da elementi provenienti dai ranghi della polizia segreta jugoslava. Una strage che avrebbe convinto ancora di più i polesani ad abbandonare la città una volta che fu stabilito definitivamente che sarebbe stata annessa alla Jugoslavia di Tito. Il dittatore jugoslavo si sarebbe poi mosso abilmente nello scenario della Guerra fredda, dapprima arrivando all’espulsione dal Cominform, l’organizzazione di coordinamento tra i vari partiti comunisti, mettendosi poi alla testa del Movimento dei Non Allineati e proponendosi infine alquanto palesemente come interlocutore delle potenze occidentali.
«Avete seguito questo excursus storico: ecco, io sono quella storia lì»: è così iniziata la toccante testimonianza di Italia Giacca, dirigente dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia ed esule a 6 anni da Stridone, paesino nel cuore dell’Istria. La sua storia parla di un padre da raggiungere a Trieste in quanto, benchè non sia mai stato fascista, è comunque “nemico del popolo” perché è un proprietario terriero; di una madre con due bambine che deve arrivare a piedi nel capoluogo giuliano; di un nonno che resta legato alla sua terra e per lunghi anni non può rivedere i suoi parenti esuli…
«Il 26 ottobre 1954 ero a Trieste – ha concluso Italia Giacca – tutta imbandierata di tricolori e gremita di folla nonostante il maltempo. Quel giorno tornava l’amministrazione italiana al posto di quella angloamericana, però l’Istria restava alla Jugoslavia. Ero felice, ma nel cuore mio e delle migliaia di profughi che erano lì c’era l’amara consapevolezza che ormai la nostra Istria era definitivamente perduta. Ma c’ero anche tre anni fa, il 13 luglio 2020, quando i Presidenti Mattarella e Pahor si sono presi per mano davanti alla Foiba di Basovizza e mi sono emozionata: dopo tanti anni, guardiamo avanti, guardiamo all’Europa»
Lorenzo Salimbeni